”Non ho mai voluto costruire semplicemente una macchina capace di svolgere il nostro lavoro, ma qualcosa che ci somigliasse a tal punto da entrare in contatto con noi in maniera empatica. Gli androidi sono degli specchi di noi stessi. Sono la chiave per aiutarci a comprendere meglio la nostra natura”.
Così raccontava in un’intervista di alcuni anni fa Hiroshi Ishiguro, professore al Dipartimento di macchine adattive all’Università di Osaka e creatore dei Geminoid, androidi dall’aspetto umano, anzi, con il suo stesso aspetto (da qui il loro nome, un richiamo al fatto che sono “gemelli” del loro creatore). Nel corso degli anni Ishiguro ha costruito diverse copie umanoidi di sé stesso, adeguando il loro aspetto agli effetti del passaggio del tempo sul proprio viso; l’ultimo è HI5, presentato in Italia al Forum Ambrosetti 2018 di Cernobbio, dove ha stupito la platea di politici ed economisti parlando al posto del suo creatore. È anche per questo che gli androidi di Ishiguro sono copie fedeli del loro creatore: per fornire un’altra bocca e un altro paio di occhi e orecchie e consentirgli in un certo senso di essere in più posti contemporaneamente. L’aspetto del robot è quindi perfettamente funzionale al suo scopo.
La crescente presenza di tecnologie di tipo robotico nella nostra società fa appunto sorgere anche la domanda di quale aspetto queste macchine debbano avere. Ed è ovvio che la risposta dovrebbe stare nella funzione che esse devono assolvere. Nelle fabbriche possono certamente andare bene bracci meccanici che si occupino solo di automatizzare la produzione, ma per un robot addetto alla reception di una struttura, o uno che fa da guida in un museo, possiamo davvero essere soddisfatti con qualcosa che appare chiaramente come una macchina? E viceversa, quanto vogliamo davvero che sembrino umani i robot con cui dobbiamo interagire?
Secondo Ishiguro il suo androide è stato in generale accolto con sorpresa e curiosità, soprattutto in Giappone; i sentimenti negativi nei confronti di una macchina creata a immagine e somiglianza di un essere umano sarebbero una risposta del tutto occidentale, legata a un impianto culturale che considera l’intelligenza artificiale per l’appunto “non umana” e diversa da sé, utile all’uomo solo finchè non diventa troppo simile ad esso, trasformandosi a quel punto in una causa di disagio, persino una minaccia.
Da un punto di vista psicologico, sembra esistere un intervallo di accettabilità, un sottile confine oltre al quale il robot umanoide amichevole si trasforma in qualcosa di vagamente inquietante, una disconnessione nella nostra percezione dove il fatto di non poter dire chiaramente “Questo è un robot” diventa un problema.
Per determinati utilizzi un robot antropomorfo resta ciò che funziona meglio, ma la gamma di possibilità è molto vasta. Come già accennato, i robot devono essere primariamente costruiti per assolvere nel modo più efficiente la loro funzione; e in molti casi questo non significa dare loro un aspetto umano, anzi, questo sarebbe per loro un impedimento nello svolgimento dei loro compiti. I robot impiegati dalle forze armate, ad esempio per disinnescare bombe, devono spesso potersi muovere su terreni non privi di ostacoli: in questo caso i cingoli sono meglio di due gambe. E si può fare lo stesso discorso per i robot inviati nelle missioni spaziali. I robot utilizzati per raggiungere spazi stretti, sia che si tratti delle pulizie di casa che delle macerie di un crollo, non hanno nessun bisogno di sembrare umani.
Un robot con caratteristiche antropomorfe, testa, braccia, occhi, che reagisce agli stimoli in modo a noi familiare, un robot che ci somiglia, genera una sensazione di simpatia e di fiducia, molto utile se sono necessarie interazioni continue con esseri umani. Ma un androide totalmente indistinguibile da un essere umano è più difficile da accettare, e per quanto l’idea sia affascinante, non siamo necessariamente pronti a questo passo.