L’impronta digitale è la madre di tutte le prove giudiziarie. O almeno: così è nell’immaginario collettivo.
Cinema e letteratura confermano e fortificano l’associazione di senso comune tra impronta digitale e prova, rendendola apparentemente ovvia: non c’è lettore di romanzi gialli che non conosca i problemi della raccolta delle impronte e del loro raffronto. E le attestazioni sono innumerevoli, a partire dalla prima comparsa letteraria di un’impronta digitale in tribunale – Vita sul Mississippi, di Mark Twain – fino a quello che è stato chiamato “Effetto C.S.I.“.
Ciò nonostante, l’associazione tra impronta digitale e prova giudiziaria non è un’associazione ovvia. Che non si tratti di un nesso scontato discende già da un’esigenza di ordine filosofico, quella di tenere concettualmente distinte verità giuridica e verità scientifica, fatti scientificamente rilevanti e fatti giuridicamente rilevanti. Semplificando molto, si può dire che lo scopo di un tribunale non sia quello di stabilire leggi valide sub specie aeternitatis, ma di applicare leggi positive; e che la verità giuridica da appurare abbia un carattere essenzialmente procedurale e formale. Molto raramente, se mai accade, “i fatti parlano da sé” (come invece sembra fare un’impronta). Se l’impronta digitale ci pare la madre di tutte le prove non è per un suo carattere intrinsecamente giuridico, ma perché risponde alla più ultimativa delle domande: la domanda che si chiede chi è stato. Un’impronta non associa semplicemente un tipo di individuo a un tipo di circostanze, ma un individuo in particolare a un accadimento particolare, come potrebbero fare una firma o un sigillo.
Ed è proprio dai sigilli che prende le mosse la storia dello studio delle impronte digitali. Attorno al 1870, Henry Faulds, un medico scozzese di stanza in Giappone, si imbatté in tracce di impronte lasciate da artigiani su una collezione di antiche terrecotte. Sollecitato dalla scoperta, Faulds arrivò a interrogarsi sulle curiose forme che i polpastrelli avevano impresso nella creta: sembravano identificare univocamente l’autore della terracotta. Ma si poteva escludere che due persone avessero le medesime impronte? E si poteva sviluppare un metodo per il raffronto tra le impronte? Con queste domande irrisolte in mente, Faulds scrisse al più grande naturalista di tutti i tempi: Charles Darwin. Questi, forse per la stanchezza legata all’età ormai avanzata, forse per mancanza di interesse, si mostrò poco ricettivo verso il suggerimento. Darwin si limitò a girare la lettera al proprio cugino più giovane, Francis Galton, che la inoltrò a propria volta alla Royal Anthropological Society. Non tutto però andò perduto. Qualche anno più tardi, Galton pubblicò una teoria sistematica sulla classificazione e osservazione delle impronte digitali (ladattiloscopia), una teoria che, sebbene nata da percorsi intellettuali e di ricerca indipendenti, sembrava rispondere proprio alle domande sollevate da Faulds.
Si può anzi dire che alla base delle scoperte di Galton vi fosse qualcosa di molto personale, una vera e propria ossessione: quella per la misurazione del corpo umano e delle sue parti (l’antropometria), anche finalizzata all’individuazione di correlazioni tra schemi di comportamento e tratti corporei, carattere e morfologia. Almeno per le impronte digitali questa ossessione si sarebbe dimostrata di importanza decisiva: Galton raccolse migliaia di campioni, li analizzò, ne studiò il metodo di catalogazione e di classificazione. Il risultato più organico di questi studi venne alla luce nel 1892: un saggio intitolato Fingerprints, “Impronte digitali”.
Galton aveva sviluppato un sistema molto rigoroso, che si basava sull’osservazione delle creste digitali, individuandone le forme fondamentali (gli archi, glianelli, le spirali) e le variazioni possibili: “arco semplice”, “arco a tenda”, “anello semplice”, “anello con occhiello” o “a uncino”, “spirale completa”, “spirale parziale”, “aperta da un lato” o “da entrambi”, “spirale chiusa” e così via. Calcolando le possibili combinazioni di tutte le variabili strutturali e numeriche delle creste, Galton era così giunto a rispondere alla prima e più fondamentale domanda posta da Faulds: la probabilità che due individui condividessero le medesime impronte digitali era approssimabile a zero. Oggi sappiamo che, più precisamente, c’è una possibilità su 64 miliardi. Ai fini pratici si tratta di un’associazione individuo-carattere ancor più stretta di quella genetica, perché almeno nel caso dei gemelli omozigoti il Dna è lo stesso, le impronte no. Proprio su questo terreno il metodo di Galton si dimostrò più efficace di un metodo concorrente, quello del Bertillonage (dal nome dello scopritore, Alphonse Bertillon). Nel 1903, infatti, il metodo di Bertillon non sarebbe stato in grado di discernere tra le impronte di due individui, risultati poi essere gemelli.
Rispondere alla domanda di Faulds non era però sufficiente. Perché il metodo di Galton si rivelasse utile, anche e soprattutto a scopi giudiziari, occorreva una serie di banche dati da incrociare con quella delle impronte digitali. Senza questa associazione tra le informazioni già archiviate su un dato individuo (anagrafe, patente e così via) e le sue impronte digitali, il metodo sarebbe stato utile, al più, per verificare la presenza, in una scena del crimine, di individui già noti agli inquirenti. Le vere potenzialità del metodo stavano altrove. Fu lo sviluppo di sistemi sempre più integrati di basi di dati a far sì che il metodo di dattiloscopia inaugurato da Galton, e i suoi sviluppi, avessero un impatto così dirompente. In ultima analisi si tratta di acquisizioni relativamente recenti, frutto della civiltà dei big data (oggi si calcola che una persona su sei, negli Stati Uniti, abbia le proprie impronte digitali archiviate da qualche parte).
Dal punto di vista della storia della scienza, la domanda che le vicissitudini della dattiloscopia suscitano è la seguente: perché Darwin si disse poco interessato alle domande di Faulds? Si trattava soltanto di stanchezza o era in gioco una motivazione più sostanziale? In assenza di basi storiche, quello che si può suggerire ha il carattere della speculazione, ma ha comunque un certo interesse: per un naturalista, abituato a una tassonomia costruita sullo studio dei caratteri, delle strutture e delle conformazioni variabili degli organismi, la dattiloscopia doveva far suonare molti campanelli. Come per la classificazione linneana delle piante, basata sulle parti destinate alla riproduzione, anche qui abbiamo una parte, i polpastrelli, caratterizzata da un alto grado di ridondanza delle informazioni: la classificazione di questa singola parte consente l’identificazione del tutto di cui è parte. Come per la sistematica classica, inoltre, abbiamo una formula primaria, data dalle strutture più a grana grossa del polpastrello, e una formula secondaria, data dalle varietà possibili dei medesimi schemi. In entrambi i casi, infine, la struttura metodologica è di tipo combinatorio.
C’è però una differenza abissale tra una tassonomia del vivente e un sistema di antropometria, per quanto raffinato, come la dattiloscopia: quello che le impronte digitali vogliono classificare non sono le specie ma gli individui. Che questa fosse la ragione del diniego di Darwin o meno, c’è un punto su cui riflettere: un metodo molto simile a quello linneano si associa qui a una classificazione priva di valore esplicativo, che è informativa solo se associata a basi di dati indipendenti. Che la più scientifica di tutte le prove non sia poi così interessante per la scienza?
(Pubblicato su Scienzainrete)