Morire di lavoro. Con una media di tre persone ogni giorno nel nostro Paese. Secondo i dati dell’Inail, solo nel 2015 le “morti bianche” (i decessi avvenuti sul posto di lavoro o le cui cause sono direttamente legate all’attività professionale) sono state 1.172. Un dato in aumento rispetto al 2014 e con cifre che riferite ai primi 6 mesi di quest’anno fanno temere un ulteriore superamento.
Tragica fatalità, inosservanza delle norme sulla sicurezza, mancanza di formazione, precarizzazione e minor tutela dei propri collaboratori. Ogni tragedia ha la sua storia e su ciascuna la famiglia ha il diritto a sapere l’origine e le responsabilità dell’accaduto.
Cadute dall’alto, investimenti da veicoli da lavoro, caduta di gravi: sempre secondo l’Istituto, sono queste le cause più frequenti delle morti bianche in Italia. Circostanze “classiche”, per cui nel tempo si sarebbe potuto e dovuto trovare modalità di lavoro più tutelate. Eppure, pare, che fare certi mestieri oggi sia ancora più pericoloso che nel passato.
“Con la crisi economica molti lavoratori sono tornati a fare cose, svolgere incarichi che sapevano non avrebbero dovuto compiere. Eppure si è tornati a fare di tutto, anche senza tutele, pur di non perdere il proprio posto di lavoro. E questa situazione è attualissima in molte aziende” spiega Addo Buriani, delegato della Camera del Lavoro di Milano e responsabile dell’Ufficio sicurezza e tutela dell’Ambiente.
Come leggere allora i dati dell’Inail, soprattutto in rapporto a una situazione economica, che come suggerito da numerosi osservatori, mostra i primi, timidi, segnali di ripresa?
Uscire dal ristallo ha il significato, importantissimo, di restituire ai cittadini maggiori possibilità di accedere a nuova occupazione e ottenere quel diritto al lavoro, basamento della Costituzione italiana.
Può questo principio, però, rischiare di compromettere un diritto altrettanto importante, e anch’esso difeso dalla nostra Carta, ossia la salute di ogni individuo, nella vita privata come sul luogo di lavoro?
Di fronte a questi numeri, che poi sono vite umane perse, può una democrazia dirsi pienamente avanzata e liberale? E sono i decisori politici altrettanto consapevoli che l’attività di monitoraggio stessa della sicurezza sui luoghi di lavoro e le attività di prevenzione e formazione sono altrettanto indispensabili anche perché prevengono ulteriori costi per la collettività?
LE TAPPE STORICHE DELLA SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO
Ma siamo davvero consapevoli che la salute e il lavoro sono beni comuni? In Italia il processo alla ricerca di forme di tutela dei lavoratori è stato lungo e in crescendo. Segnando alcune tappe fondamentali prese ad esempio anche a livello internazionale.
È suggestiva e determinante la spinta comunitaria e sociale che accompagna ciascuna tappa delle conquiste, operaie soprattutto, a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
La salute è stata una conquista di classe. Le società di Mutuo soccorso sono un primo e importante tentativo di organizzazione spinta dai valori della mutualità, della solidarietà spesso caratterizzata anche da un’unione morale dei comportamenti. Era la seconda metà dell’‘800, in piena era industriale. A Milano e Genova (Giuseppe Mazzini diede una grande spinta) si costituiscono le prime Società di Mutuo soccorso. Gli scopi erano chiari: attuare vere e proprie forme di “welfare” basate su servizi a disposizione dei lavoratori e, contemporaneamente, assicurare condizioni più umane alle categorie più fragili, i “fanciulli” e le donne. Con il Risorgimento si diffusero società e mutue con differenti affinità politiche ma anche realtà i cui unici obiettivi erano il miglioramento morale e materiale dei soci.
La legge n. 380 del 1906 fu considerata istitutiva dell’Ispettorato del lavoro. Non fu generata agilmente e conteneva riferimenti più generali rispetto alla tutela della salute e della sicurezza del singolo, come certamente ancora non erano maturi i tempi per parlare di prevenzione. Intanto, questo provvedimento gettò le basi per l’istituzione di un organismo terzo con l’obbligo di vigilare sull’applicazione delle leggi del lavoro e dei problemi operai dentro la fabbrica.
A livello internazionale si intravedeva la nascita, avvenuta nel 1919, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), la prima istituzione dove lavoratori, datori di lavoro e governi esaminano su un piano di eguaglianza, a livello mondiale, le questioni relative al lavoro.
Nel marzo del ’43, gli operai delle fabbriche del Nord, tra tutti i lavoratori degli stabilimenti di Sesto San Giovanni, fecero storia coi loro scioperi antifascisti, che diedero un importante spintone al vacillare del regime. Tra le rivendicazioni, anche quelle per chiedere di migliorare le condizioni di lavoro durissime nel rispetto della salute e della sicurezza.
Anche a riconoscenza verso le donne e gli uomini che fecero la Resistenza nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro il primo articolo della Carta Costituzionale definisce l’aspetto fondativo del lavoro per la Repubblica italiana.
Più avanti, all’articolo 38, sono approfonditi gli aspetti legati alla salute: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Da qui ci vollero altri 30 anni per scrivere la riforma sanitaria. Il testo incorporava tra gli obiettivi anche “l’educazione sanitaria del cittadino e delle comunità; la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro; la sicurezza del lavoro con la partecipazione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali; diagnosi e cura degli eventi morbosi quali ne siano le cause, la fenomenologia e la durata della riabilitazione degli stati di invalidità e di inabilità; tutela della salute mentale; procreazione responsabile e tutela della maternità e dell’infanzia; disciplina della sperimentazione, produzione e immissione in commercio e distribuzione dei farmaci; promozione e salvaguardia della salubrità e dell’igiene dell’ambiente naturale di vita e di lavoro (Fonte: Centro per i diritti del malato)”.
Per la prima volta, con il D.Lgs. 626/1994 viene assegnata la responsabilità penale al datore di lavoro che omette la formazione e l’istruzione da dare al personale sui processi e sui mezzi a disposizione per lavorare in sicurezza. La novità è grande e implica l’attività di prevenzione come obbligatoria. Ancora, la “626” istituì il Medico Competente, nominato dal datore di lavoro, per effettuare i controlli sanitari e le visite di monitoraggio aziendali.
Una promessa mantenuta fu invece scritta nel “Testo unico della sicurezza” sul lavoro entrato in vigore nel 2008 che raccoglie tutta la normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, abrogando le precedenti normative. Le novità più interessanti propongono un sistema di gestione della sicurezza e della salute preventivo e permanente attraverso l’elaborazione di una strategia aziendale. Il provvedimento prevedeva anche l’introduzione del Sistema informativo nazionale della prevenzione, una banca dati comune tra tutti gli operatori istituzionali e del lavoro per monitorare costantemente i dati sugli infortuni. Un database il cui avvio è tuttora in ritardo.
FARE GIUSTIZIA
I sindacati, le associazioni di famigliari delle vittime delle morti sul lavoro hanno presto cominciato a parlare di “omicidio” in riferimento al fatto che queste sciagure non potevano rimanere senza colpevoli, sostenendo che il “lavoro” e la fatalità non potevano essere gli unici responsabili. I famigliari delle vittime volevano “giustizia”. I cui tempi, nell’iter processuale italiano, possono essere molto lunghi.
È il caso dei processi per i morti di amianto in Monferrato. La Corte Costituzionale è stata chiamata a rispondere sulla possibilità di un nuovo processo al presidente della società Eternit, condannato a 16 anni per disastro ambientale doloso, reato poi prescritto. Negli anni’70 erano diffusi i primi studi sulla pericolosità della fibra utilizzata in molti processi industriali ma per molti anni si continuò a produrre a discapito della salute dei lavoratori e degli abitanti intorno alle fabbriche che lavoravano l’amianto. Nella provincia di Alessandria ancora oggi si contano migliaia di persone affette da malattie legate all’inalazione di particelle di amianto e stabilire la morte per amianto, anche a decenni di distanza, non è facile da dimostrare giuridicamente.
Più veloce, relativamente, e definitiva è stata la sentenza storica, pronunciata nel mese di maggio contro i dirigenti della Thyssenkrupp di Torino. I giudici hanno confermato le condanne per omicidio colposo a sei persone con pene che vanno dai sei ai nove anni di reclusione. L’episodio risale al 2007 quando durante un incendio divampato in azienda persero la vita sette operai.
Pene dure, però, non sono un deterrente decisivo per frenare questo fenomeno. “Occorre tenere alta la guardia, mettere in campo tutti gli strumenti di prevenzione e contrasto, investire sulla sicurezza – ha spiegato Paola Gilardoni, segretario regionale Cisl Lombardia con delega alla Salute e sicurezza ad alcuni media nazionali -. Gli investimenti in tema di sicurezza sul lavoro devono coinvolgere anche i giovani, partendo dalla scuola per favorire l’affermarsi di una cultura della prevenzione”.
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