Il traffico illegale di piante ed animali selvatici è una delle principali cause di perdita di biodiversità nel mondo: ogni anno, centinaia di milioni di specie animali e vegetali rare vengono prelevate dal loro ambiente e vendute a peso d’oro sui mercati clandestini.
Il traffico illegale di specie protette è il quarto mercato illegale dopo quelli di droga, armi ed esseri umani, con un giro d’affari di 23 miliardi di dollari l’anno, gestito spesso dalla criminalità internazionale a danno dell’ambiente, e non di rado per finanziare movimenti terroristici.
Al mondo quasi non esiste specie animale o vegetale che non sia mai stata comprata e venduta – legalmente o illegalmente – per la carne, la pelle, la pelliccia, il valore ornamentale, la bellezza del canto, o per farne un animale di compagnia, o per usarla come ingrediente in profumi o medicine. Ogni anno Cina, Stati Uniti ed Europa spendono miliardi di dollari per importare fauna selvatica dalle zone più ricche di biodiversità, come il Sud-Est asiatico, svuotando i parchi e saccheggiando le aree naturali, spesso rese accessibili grazie alle strade aperte dall’industria del legname.
Di solito la catena comincia da cacciatori o contadini poveri, che catturano l’animale per conto di un trafficante locale, il quale lo vende a trafficanti che agiscono su scala più ampia. Alcuni di questi ultimi agiscono anche mandando sul posto bracconieri di fiducia, travestiti da turisti. In Cina gli animali selvatici finiscono in pentola o nelle farmacie tradizionali; in Occidente vanno a ravvivare i salotti dei collezionisti di fauna esotica. Dal punto di vista economico vige la più elementare legge della domanda e dell’offerta: più è raro l’oggetto, più è alto il prezzo. E poiché la natura sta morendo dappertutto, i suoi pezzi più rari diventano sempre più costosi.
Nessuno sa di preciso quanto fatturi il commercio illegale di specie animali rare, ma una cosa è sicura: rende tantissimo, più della droga. I trafficanti nascondono gli animali proibiti tra le importazioni legali, corrompono guardie forestali e doganieri, alterano i documenti. Vengono scoperti di rado, e subiscono condanne non molto più pesanti di una multa per divieto di sosta. È con tutta probabilità la forma di commercio illegale più redditizia che esista.
Secondo quanto riportato dalla Guardia Forestale, nel nostro Paese si consuma una violazione in materia ambientale ogni 43 minuti e i reati contro gli animali e la fauna selvatica rappresentano il 22% del totale del reati ambientali. In Italia il Servizio CITES del Corpo forestale dello Stato da anni opera sul territorio nazionale e in ambito doganale per assicurare i controlli necessari all’applicazione della Convenzione di Washington – CITES (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora – Convenzione sul commercio internazionale di specie animali e vegetali minacciate di estinzione), curando al contempo il rilascio delle prescritte certificazioni e collaborando con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (MATTM) per le attività di gestione della Convenzione. Tra le oltre 35.000 specie di flora e fauna tutelate dalla Convenzione internazionale di Washington sono annoverati innumerevoli rappresentanti della biodiversità europea ed italiana, minacciati di estinzione. ll Servizio CITES ha accertato nel 2014 complessivamente 174 reati, contro i 269 del 2013, riguardanti il commercio illegale delle piante e degli animali tutelati: un dato sicuramente positivo ma non sufficiente.
Purtroppo i trafficanti sfruttano una scappatoia legale della Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie in pericolo (CITES), che con 175 paesi membri è il principale trattato sulla protezione della fauna selvatica. La Cites divide le specie in tre gruppi, a seconda del rischio percepito. Gli animali elencati nell’Appendice I, come le tigri o gli oranghi, sono considerati talmente vicini all’estinzione che il loro commercio è del tutto vietato. Le specie dell’Appendice II sono meno vulnerabili e possono essere esportate nel quadro di un sistema di permessi; quelle dell’Appendice III sono protette dalle leggi nazionali dei paesi che le inseriscono nella lista. La scappatoia è che la Cites non assicura la stessa protezione agli animali nati e allevati in cattività.