La telenovela dello sviluppo

Nell’ultimo decennio il Brasile ha vissuto un’intensa fase di sviluppo economico, un processo che ha talvolta assunto caratteristiche contradditorie, se non conflittuali. Tra i casi più emblematici assume una rilevanza particolare Belo Monte, il progetto di costruzione di una diga per la realizzazione di una centrale idroelettrica nell’Amazzonia brasiliana.  

Poco più di due anni fa Ricardo Pereira, giornalista della TV Globo Brasile, era intervistato ai microfoni di Radio3. In quella occasione, commentando uno dei principali fatti internazionali del giorno, aveva utilizzato un’immagine particolare. Si era riferito a quanto doveva riportare menzionando un prodotto culturale sudamericano rinomato in tutto il mondo: la telenovela. La notizia era la conclusione di una gara d’appalto per la costruzione di un importante opera, ma la metafora impiegata dal cronista rimarcava non tanto un risultato, ma piuttosto un processo. Una telenovela è per antonomasia un qualcosa di lungo, se non estenuante, proprio come le vicende legate alla diga di Belo Monte.
Il palcoscenico di questa storia, ancora priva di un finale, è l’Amazzonia, e più precisamente la zona limitrofa alla cittadina di Altamira, nello stato federale del Pará, dove si parla della realizzazione di questa centrale idroelettrica perlomeno dagli anni ottanta del secolo scorso. Il progetto ha senz’altro subito dei cambiamenti nell’arco di questi trent’anni, ma, come aveva sottolineato Pereira, i buoni e i cattivi sono praticamente rimasti gli stessi. Da una parte il governo e le imprese costruttrici, dall’altra ambientalisti e comunità indigene.
Di sicuro, in tutti questi anni, il cambio più evidente è stato simbolico, anzi nominale. Si è infatti passati dal bellicoso Kararaô – il grido di guerra della tribù autoctona dei Kayapo – al più rassicurante Belo Monte. Sono cambiati anche i governi e le loro appartenenze politiche, eppure le posizioni dei presidenti succedutisi sono pressapoco identiche: un sostanziale e attivo appoggio del progetto.

Le potenzialità e i costi della centrale idroelettrica

È innegabile che una nazione come il Brasile, la sesta economia mondiale, abbia bisogno di fonti energetiche adeguate per sostenere il suo sviluppo. E sembra altrettanto innegabile che con il lancio del Programma di Accelerazione della Crescita (PAC), avvenuto sotto la guida di Lula, si siano compiute determinate scelte al rispetto. La diga di Belo Monte non è che una delle materializzazioni di queste scelte.
I lavori sono ufficialmente iniziati nel marzo del 2012, e intervengono sul flusso del fiume Xingú, con l’obiettivo di alimentare una decina di turbine in grado di sviluppare una potenza di poco superiore agli 11.000 megawatt. In tal modo la centrale dovrebbe coprire il 10% del fabbisogno energetico brasiliano. Un condizionale che rimanda alla lontananza temporale dell’effettivo funzionamento dell’opera (previsto per il 2015) e all’incertezza sulle reali capacità produttive del complesso. Queste ultime saranno infatti pesantemente influenzate dalle condizioni climatiche della regione, con dei massimi produttivi che si attesteranno intorno agli 11.230 MW e dei minimi che invece raggiungeranno valori di gran lunga inferiori (4-5.000 MW). Cifre che farebbero comunque di Belo Monte la terza diga al mondo, alle spalle di quella cinese delle Tre Gole (20.000 MW, circa) e della sempre sudamericana Itaipú (14.000 MW, circa).

Piazzarsi sul podio comporta però dei costi economici, stimati dall’Economist in 11 miliardi di dollari, mentre da Nature in 17 miliardi di dollari. Un ammontare che, a prescindere dalle possibili variazioni, sarà sostenuto soprattutto dal governo brasiliano. È sufficiente infatti interrogarsi sulla composizione del consorzio Norte Energia, il soggetto che nell’aprile del 2010 si è aggiudicato la la gara d’appalto per l’opera. Ebbene, l’impresa principale del consorzio è la São Francisco, un’azienda controllata dalla compagnia statale Eletrobras.

L’opera e l’ambiente

Il Brasile, che nello scorso mese di giugno ha ospitato la Conferenza Rio+20, è uno dei Paesi leader nella produzione di energia da fonti rinnovabili. La decisione di investire ingenti risorse economiche su Belo Monte si inserisce anche all’interno di questo scenario. Resta però da considerare la distinzione tra la rinnovabilità di una determinata fonte energetica e i suoi impatti ambientali: una centrale idroelettrica non produce necessariamente energia pulita.

Spostare un corso d’acqua significa modificare radicalmente l’ambiente. Ad esempio, intervenendo sulla Volta Grande – il tratto del fiume Xingú più interessato dall’operazione, il punto in cui sarà deviato il suo letto – si inonderà una superficie di foresta amazzonica di circa 500 km2. Un’inondazione che si combinerà con una profonda deforestazione, e conseguentemente con un aumento delle emissioni di gas inquinanti nell’atmosfera (soprattutto metano). Ma l’impatto ambientale non si misurerà soltanto con i metri quadrati di foresta inondata e sottratta o con quelli cubici di aria inquinata. Le ripercussioni riguarderanno anche la sopravvivenza di diverse specie animali e vegetali del bacino dello Xingú, un aspetto che può assumere una valenza tragica per un Paese definito da Nature come megadiverse (il Brasile insieme ad altri 16 stati contiene il 70% della biodiversità mondiale).

L’opera e l’uomo

Senza poi dimenticare gli effetti su un altro animale, l’uomo. Un’opera di questa portata non può che avere un ragguardevole impatto sociale sulla popolazione umana della regione. Innanzitutto comporterà uno spostamento di 20-40.000 persone, secondo le cifre fornite dal New York Times. Gli sfollati saranno in gran parte membri delle comunità indigene – la regione fa parte del primo parco indigeno del Brasile, istituito nel 1961 – che hanno profondi legami con il fiume Xingú, da un punto di vista sia materiale (per le attività della pesca e della navigazione) sia culturale. Ma ci saranno effetti negativi anche sui coloni, ovvero gli emigrati nella regione in epoche più recenti e impegnati principalmente in attività agricole. E infine la centrale idroelettrica coinvolgerà anche un altro tipo di popolazione, quella costituita dalla manodopera in arrivo necessaria per le opere di costruzione.

Emerge quindi un quadro altamente complesso, anche perché le variabili in gioco, facendo parte di un sistema (l’ambiente), finiscono per riverberarsi una sull’altra. Ciò non vuol dire che non esistano i presupposti per azzardare delle previsioni, anzi sarebbe forse più corretto parlare di anticipazioni.

È sufficiente spostarsi di poco, muovendosi di appena 400 km. Senza cambiare stato federale si può infatti contemplare un’altra diga, quella di Tucuruí, costruita agendo su un altro affluente del fiume Amazzonia, il Tocantins. Questa centrale idroelettrica, progettata nel 1973 – in piena dittatura militare – e ultimata nel 1985, ha dimensioni e potenza minori rispetto a quella di Belo Monte, ma ciononostante i suoi effetti, raccontati in un recente reportage di Roberto Giovannini apparso su La Stampa, sono stati tutt’altro che insignificanti, tanto per l’ambiente che per la popolazione lì residente.       

Le parti in conflitto e le prospettive future

Belo Monte, così come altri progetti simili (altri due casi rilevanti sono quelli che interessano il Madeira, un altro fiume amazzonico interessato dai progetti delle centrali di San Antonio e di Jirau) assume quindi la fisionomia di un conflitto in cui si scontrano le esigenze dello sviluppo economico e della conservazione ambientale. Le parti in causa, i buoni e i cattivi di questa telenovela, si sono finora confrontate soprattutto nelle aule dei tribunali o di importanti organizzazioni internazionali.

Sulle procedure con cui è stata approvata la realizzazione della diga si sono espresse con pareri negativi sia l’Organizzazione Mondiale del Lavoro sia la Commissione Interamericana dei Diritti Umani. Le due istituzioni hanno infatti riscontrato irregolarità nelle modalità con cui (non) sono state consultate le comunità indigene.

Un aspetto su cui ha in insistito anche la sentenza del 14 agosto scorso emessa dal Tribunale Federale Regionale, il quale aveva dettato un ordine di sospensione immediata dei lavori. Una decisione però ribaltata dopo appena due settimane, quando il Tribunale Superiore del Brasile ha revocato l’ordine di sospensione, dando così nuovamente il via libera al progetto.

I due schieramenti, ovvero governo e imprese, da una parte, e ambientalisti e indios, dall’altra, non rimangono però a guardare, ma piuttosto ognuno continua a giocarsi le proprie carte come meglio può. Assistiamo a campagne di mobilitazione contro la diga sempre più intense, capaci di utilizzare le risorse comunicative e organizzative messe a disposizione dalla Rete. Mentre, come segnalano Nature e GlobalVoices, sul versante opposto il governo brasiliano, attraverso il Decreto 303, è al lavoro su nuovi regolamenti  per permettere la costruzione di dighe, strade e basi militari in territori indigeni senza il consenso degli abitanti, qualora tali opere fossero considerate rilevanti per la sicurezza nazionale. Se una simile legislazione fosse approvata segnerebbe una significativa svolta per le sorti del rio Xingú, un colpo di scena nella trentennale telenovela di Belo Monte.

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