Durante il convegno “Il clima del giorno dopo” abbiamo ricevuto moltissime domande, tra cui una molto lunga a cui abbiamo avuto il piacere di rispondere, spezzandola in più parti.
Siamo sicuri che sia sufficiente chiamare in causa motivazioni scientifiche per convincere che è il caso di correggere la modalità di sfruttamento del pianeta? Snocciolare numeri, dati e previsioni più o meno catastrofiche non è, a mio avviso, convincente per cambiare l’atteggiamento.
Il tema del cambiamento climatico è considerato dalle maggiori realtà internazionali, istituti di ricerca, team di scienziati e, più recentemente, anche da istituti bancari e finanziari, tra le sfide – se non la sfida – del secolo. La letteratura scientifica che si è andata accumulando negli anni non fa altro che confermare l’esistenza del riscaldamento globale e la sua causa umana, come riporta periodicamente l’IPCC.
Non si può quindi prescindere dalla comunicazione dei dati, dei numeri e quindi, nello specifico, dei rischi che si corrono. Perché solo conoscendo approfonditamente i pericoli verso cui ci stiamo dirigendo si può, da un lato, interiorizzare a pieno il problema e, dall’altro, decidere di affrontarlo. La comunicazione non può quindi evitare di riferire anche i peggiori scenari, come non può addolcire la pillola raccontando mezze verità: non sarebbe scientificamente onesto e risulterebbe controproducente. Non si può avere paura di dire che «la casa è in fiamme» per non spaventare gli inquilini: così si finisce bruciati. Ecco quindi che comunicare il pericolo è giusto, perché chiarisce i punti e contestualizza il problema. Una comunicazione dei dati rimane per questo un punto di partenza imprescindibile. Solo dopo una contestualizzazione completa e rigorosa si può procedere al passo successivo: la comunicazione delle soluzioni. Esse sono tecnologicamente mature ed economicamente competitive: siamo ormai pronti ad avviare la transizione ecologica e questo va comunicato con altrettanto impegno e chiarezza. Serve un impegno importante in ogni settore: dall’energia alla mobilità, dalla ricerca e sviluppo alla governance.
Minacciare che anche l’umanità corre il rischio di scomparire, siamo sicuri che sia sufficiente per giustificare la tutela dell’ambiente? Non occorre forse cambiare proprio la concezione scientifica della natura, pensata come meramente meccanica, costruita in termini matematici, ad uso e consumo dell’uomo intelligente? L’ambiente ha o non ha un valore intrinseco, di per sé, indipendentemente dal fatto che ci viva l’uomo? Paradossalmente, la scomparsa dell’uomo non potrebbe significare la fioritura di tutte le altre specie e dell’ambiente?
Forse lo slogan più famoso in campo ambientale è «salvare il pianeta». Tuttavia, in questo modo, si attribuisce alla Terra una antropomorfizzazione che non le appartiene. Non dobbiamo salvare il pianeta, il pianeta, come sappiamo, evolve, cambia e muta e così fa la «natura» che lo popola. Non hanno senso nemmeno espressioni come «la Natura si ribella» o «la Natura è indifferente». La natura non è umana e non prova sentimenti umani. La natura esiste e noi ne siamo parte. Allo stesso modo, la natura non è meccanica o costruita con modelli matematici: al contrario, l’uomo interpreta la natura con modelli matematici cercando di trarre giovamento dagli «insegnamenti» dei modelli stessi. Gli scienziati e i comunicatori che oggi vogliano raccontare di una natura meccanica e costruita secondo modelli umani, portano avanti valori ormai obsoleti. La nostra comunicazione non risponde a questa ideologia meccanicistica.
II cambiamento climatico innescato dal riscaldamento globale antropico – così come la perdita di biodiversità e la rottura degli altri «confini planetari» (vedi Rockström et al.) – è insostenibile per l’attuale livello umano di benessere. Il Guardian ha suggerito infatti di usare l’espressione «crisi climatica» proprio per attribuire al generico «cambiamento climatico» una prospettiva umana. Questo implica che oltre a conoscere e comunicare pericoli e soluzioni, la crisi va contestualizzata allargando i confini delle scienze del «sistema Terra», alla necessità di modificare il modello di sviluppo e al bisogno di riorganizzare la governance globale con una prospettiva tanto democratica quanto efficace.
Bisogna inoltre tenere presente che, per quanto scientificamente parziale, un messaggio che ponga al centro della crisi il destino dell’umanità risulta più efficace da comunicare. Cambiare la concezione della natura è un’ambizione altissima, sostenuta anche da Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, ma che rischia di apparire troppo astratta e lontana a un pubblico immerso nel flusso rapidissimo di informazioni che ci circonda. In questo momento serve invece creare una massa critica di consenso affinché i nuovi sistemi economici e di governance possano essere implementati col pieno sostegno dell’opinione pubblica. L’ambiente ha senz’altro un valore intrinseco, ed è doveroso lavorare con lentezza a questo cambio di paradigma esistenziale, ma per attuare il cambiamento necessario oggi bisogna convincere gli esseri umani, mentre ancora si credono al centro del mondo.
I meno indicati a parlare di necessità morale di tutela ambientale non sono proprio gli scienziati? L’errore non sta proprio nel riduzionismo scientifico di cui la scienza e gli scienziati si fanno portatori?
Come già accennato, probabilmente gli scienziati non hanno saputo comunicare opportunamente il problema. Serve una nuova generazione di comunicatori della scienza che, insieme ai risultati scientifici, sia in grado di tessere relazioni di fiducia con la società svincolandosi dall’aridità di dati e proiezioni, ma facendo tesoro dell’importanza dell’emotività e della partecipazione nella comunicazione. Abbiamo anche bisogno di un cosiddetto «bagno di umiltà» generale: gli scienziati non possono più comunicare direttamente al pubblico senza una mediazione dei comunicatori della scienza e, dalla parte opposta, i professionisti della comunicazione generalista debbono comprendere come funziona la comunicazione scientifica. Quest’ultima ha tempi e modi unici nel suo genere, totalmente differenti dal racconto di un fatto di cronaca o dall’aggiornamento politico quotidiano. La mancata comprensione di questa diversità comunicativa genera errori e incomprensioni di cui – come anche per l’attuale pandemia – stiamo pagando il prezzo. Un modo valido per superare queste difficoltà potrebbe essere spingere sempre più scienziati a studiare comunicazione con impegno e serietà, perché ricerca e comunicazione devono andare di pari passo. Per questo, la comunicazione della scienza deve essere considerata un patrimonio unico tanto delle scienze «dure» quanto delle scienze «umanistiche». Entrambe hanno bisogno di parlare al pubblico come una voce sola.
Sull’ambiente occorrerebbe fare quanto fatto per ogni uomo nella “Dichiarazione Universale dei diritti umani”, cioè dichiarare la presenza di una dignità da tutelare uguale in tutti gli uomini, indipendentemente dal fatto che l’individuo stesso se la meriti o meno. È o non è una violazione di un diritto e di una dignità, stavolta ambientale e animale, sfruttare oltre misura il pianeta. I diritti umani, al benessere alla realizzazione, non devono forse essere compressi per tutti, in nome di diritti ambientali e animali che si dovrebbero loro attribuire?
Se si vuole allargare il discorso oltre il solo universo umano, non si possono non considerare i temi dei diritti degli animali e, in senso generale, della natura. Per cui avrebbe senso riconoscere che, oltre a destabilizzare (egoisticamente) il benessere umano, il sovrasfruttamento umano delle risorse naturali pone anche un problema etico verso gli altri esseri viventi. Non è un discorso semplice, né conosciuto a pieno, visto che si parlerebbe di eventuale o certa coscienza animale o, magari, vegetale. Per assurdo, tutelare tutti gli esseri viventi significa tutelare anche i batteri che provocano letali malattie? Senza aprire qui un tema enorme e intrigante, è in ogni caso da tenere presente che eventuali «Dichiarazioni universali sui diritti degli animali o simili» sarebbero comunque una struttura squisitamente umana (così come lo è il veterinario o l’istituzione di aree protette per conservare la natura) e non può che essere così.
Per avviare la transizione ecologica non siamo di fronte a un percorso rose e fiori. Volendo fare un esempio concreto potremmo parlare della produzione di batterie con materiali come il litio, il cobalto e altri. C’è un problema di sfruttamento nei paesi in cui vengono estratti questi materiali? Innanzitutto bisognerebbe conoscere lo stato dell’arte e capire se si tratta dell’eccezione o della regola. Tuttavia, basterebbe anche solo un essere umano sfruttato per pretendere di modificarne la filiera produttiva, come passare a un modello di economia circolare. Vale lo stesso, d’altra parte, per le miniere di carbone e, in generale, per tutti gli impatti sui diritti umani dei cambiamenti climatici. Ecco quindi che la crisi climatica viene a essere un problema di giustizia, sia nel tempo che nello spazio. Ad oggi chi subisce gli impatti maggiori della crisi ecologica (quindi non solo dei cambiamenti climatici) sono coloro che hanno contribuito meno (o per nulla) a provocarla: i paesi e le persone povere e le nuove generazioni.
Autori: Jacopo Mengarelli, Riccardo Lucentini, Serena La Rosa
Potete rivedere il convegno a questo link!