Perché in Italia l’acqua è di tutti? Da quando le risorse idriche sono pubbliche e grazie a quali norme? Un breve viaggio nella legislazione italiana in materia di acqua per comprendere che privatizzare questa risorsa è praticamente impossibile.
In un recente editoriale su Internazionale (n°964), Paul Kennedy, professore di storia alla Yale University, si è domandato quale possa essere la cosa peggiore che potrebbe succedere al mondo da qui al 2050. Pur ipotizzando scenari catastrofici, dal conflitto tra Cina e Stati Uniti alle rivendicazioni nazionaliste della Russia, il quadro più fosco che si possa immaginare, per lo studioso statunitense, è la perdita della fonti di acqua dolce. Una minaccia che è, di gran lunga, la più temibile rispetto a tutte le più nefaste che si possano immaginare. D’altronde, è evidente che l’acqua corrente è irrinunciabile per la sopravvivenza degli ecosistemi, delle culture e degli stati nazionali. Una gestione politica dell’acqua è dunque necessaria per consentire a tutti di avere accesso a questo bene, tanto vitale quanto prezioso, e per evitare che possano sorgere preoccupanti speculazioni legate all’utilizzo dell’acqua.
In Italia il dibattito sulla gestione dell’acqua ha raggiunto il suo momento più caldo in occasione dei referendum del 12 e del 13 giugno 2011. Due dei quattro quesiti riguardavano proprio l’acqua e, in particolare, il primo chiedeva l’abrogazione del decreto Ronchi che rendeva obbligatoria l’istituzione di una gara a evidenza pubblica per l’affidamento della gestione dei servizi idrici a privati oppure a società miste pubblico/privato, mentre il secondo chiedeva l’eliminazione del criterio del profitto tra quelli che contribuiscono a definire le tariffe del servizio idrico. Come è noto, i quesiti hanno visto l’affermazione schiacciante del Sì, che ha sancito la volontà popolare di non privatizzare la gestione dei servizi idrici. Ma, in Italia come è regolamentata la gestione dell’acqua? In base a quali norme viene distribuita?
Il dibattito, infiammatosi durante i referendum, è stato spesso influenzato ideologicamente e nasconde molte insidie. Premesso che le Nazioni Unite stabiliscono “il diritto all’acqua potabile e sicura e ai servizi igienici un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”, in Italia l’acqua rientra nell’ambito dei beni comuni, quindi immune da logiche di proprietà pubblica e privata. Un breve excursus storico potrà chiarire meglio la situazione delle politiche italiane sull’acqua. Precisamente, il suo essere pubblica è stato sancito nell’articolo 144 del decreto legislativo 152 del 2006: «Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato». Si può dedurre, dunque, che l’acqua non potrà mai essere privatizzata e nessuno potrebbe mai disporre la sua cessione o la sua vendita, senza contravvenire alle norme vigenti.
In realtà, la regolamentazione delle risorse idriche italiane ha una storia lunga, ricca di normative e di precisazioni che hanno prodotto la situazione attuale. Ad esempio, nell’Italia che si era appena unificata, nel 1865, l’acqua era ancora un bene sostanzialmente gestito secondo le logiche della proprietà privata, sebbene fosse utilizzabile liberamente da tutti. La prima legge fondamentale in ambito idrico è l’articolo 1 del Regio Decreto del l’11 dicembre 1933 che sancì la pubblicità delle risorse idriche italiane. Successivamente i decreti del 1934 e del 1942 confermarono e ampliarono la norma, definendo – come scrivono D’Angelis e Irace ne Il valore dell’acqua – : «le acque come beni immobili, appartenenti al demanio pubblico dello Stato o degli enti locali, e dunque beni inalienabili che non possono formare oggetto di diritti a favore di privati, se non in casi specifici previsti per legge».
Più di trent’anni dopo, la legge Merli 319 del 1976 stabilì anche delle direttive che salvaguardavano il valore ecologico dell’acqua e degli ecosistemi marini e lacustri. Un importante traguardo che rappresenta un punto fermo nelle normative ambientali italiane; inoltre, la stessa legge Merli consegnò alle regioni la gestione della rete fognaria e degli impianti di depurazione. In seguito, nel 1982, arriva la legge Galli che afferma la natura pubblica di tutte le acque, considerandole una risorsa da salvaguardare e sfruttare secondo criteri di solidarietà.
Anche terminologicamente la questione della gestione dell’acqua regala degli spunti di riflessione: dalla definizione iniziale, contenuta nella legge Galli, in cui l’acqua era definita un “bene”, si passa a considerarla una “risorsa”, disponibile, quindi, per tutti i cittadini e maggiormente salvaguardabile.
In Italia, come nella maggior parte del mondo, l’acqua non è solo un bene pubblico, ma un diritto umano fondamentale, un patrimonio collettivo, una risorsa ambientale vitale. Per queste ragioni, usi e prelievi idrici hanno subito una strettissima e particolareggiata regolamentazione, affinché si possa assicurare a tutti, in modo sicuro e immediato, l’accesso alla risorsa più preziosa e un corretto utilizzo. Nonostante le perplessità, spazzate via dai risultati referendari, lo status pubblico della risorsa acqua non è mai stato in discussione e mai potrà esserlo, senza violare principi nazionali e internazionali. L’acqua appartiene alla collettività e, come sottolineano sempre D’Angelis e Irace «oggi una pubblica amministrazione che intenda autorizzare uno sfruttamento d’acqua in concessione dovrà innanzitutto aprire un’attività istruttoria ai fini del rilascio che valuti attentamente anche le alternative in grado di fornire acqua della stessa qualità e quantità rispetto a quella che verrebbe a mancare in caso di autorizzazione dell’attività».
Quindi, salvaguardare il diritto di ognuno a un bicchiere d’acqua è un caposaldo della legislazione italiana e nessuna presunta privatizzazione potrà mai mettere in discussione tale inviolabile principio. L’unica acqua che sarà considerata merce sarà sempre e solo quella che vediamo sugli scaffali del supermercato nelle bottiglie di plastica.