Verso una terapia personalizzata. Efficace per tutti

Già 2.500 anni fa se ne discuteva. Ippocrate, il padre della medicina occidentale, fu un sostenitore della medicina personalizzata e in uno dei tanti testi che scrisse sottolineò la necessità di: “somministrare diverse medicine a pazienti diversi: quelle dolci non danno lo stesso beneficio a tutti, né gli astringenti producono lo stesso effetto, né i pazienti sono in grado di assumere la stessa bevanda” [1].

Oggi, il suggerimento di Ippocrate non è stato dimenticato. Pressochè tutti gli approcci terapeutici cercano di procedere “caso per caso”, sebbene il concetto di personalizzazione della medicina sia stato sviluppato in modi diversi da scuole diverse e spesso si trovi a rappresentare il territorio di un acceso dibattito tra medicina convenzionale e alternativa.

La medicina alternativa ricorre spesso al termine “olistico” per descrivere un approccio terapeutico di cui, nell’operatività delle sue diverse teorie, è spesso promotrice e che ha l’obiettivo di considerare il paziente nella totalità della sua persona. Quindi il suo corpo, la mente e lo spirito devono essere considerati in modo paritario e giacchè ognuno di questi livelli di cura definisce in modo esclusivo il malato, l’approccio olistico ricerca per definizione un trattamento personalizzato. Ad esempio, l’approccio olistico è costitutivo per scuole come l’omeopatia. Il suo padre fondatore, il medico tedesco Samuel Hahnemann, ipotizzò che l’incontro diagnostico dovesse focalizzarsi non solo sui sintomi, ma anche, e in modo integrato, sulle caratteristiche personali di ogni individuo. Come scrivono Simon Sigh ed Edzard Ernst nel saggio “Trick or Treatment? Alternative Medicine on Trial”, “[…] idealmente l’omeopata è alla ricerca del simillimum, ossia il rimedio che offre una perfetta corrispondenza tra le caratteristiche uniche del paziente e i suoi sintomi”. In altri casi, con il termine “medicina olistica” si intende l’approccio integrato tra medicina convenzionale e alternativa, nel tentativo di promuovere il raggiungimento di una salute complessivamente ottimale per il paziente [2].

Non esiste quindi un’unica definizione di “medicina olistica” e spesso le diverse interpretazioni non sono sempre condivise. Un certo numero di scuole afferenti al sistema della medicina alternativa, per esempio, considera la malattia stessa come il risultato di uno squilibrio tra corpo, mente e spirito [2, 3] e dunque l’approccio olistico non dovrebbe essere adottato solo come stile terapeutico, a valle della malattia, bensì anche a monte. Dovrebbe essere cioè applicato allo stile di vita più in generale, al fine di preservare l’individuo dalla rottura di quel benessere sistemico che si troverebbe all’origine di un stato patologico. Elementi come il benessere spirituale non sono, tuttavia, misurabili, né obiettivi, e pertanto non possono costituire il focus della medicina convenzionale, impegnata a utilizzare indicatori diversi per l’analisi dei processi patogenetici.

Un altro punto di divergenza tra medicina convenzionale e alternativa riguarda gli strumenti necessari per stabilire la validità di una terapia, non sempre compatibili con un approccio olistico. Poiché la medicina convenzionale trae la sua legittimazione dalle prove di efficacia, utilizza metodi come trial su larga scala e meta-analisi che sono, spesso, scomodi per chi offre un trattamento estremamente personalizzato. Questo, infatti, non può essere sottoposto a trial in cui il rimedio deve invece essere standardizzato [4]. Nel caso stesso dell’omeopatia, trovare il rimedio più adatto è un compito talmente complesso e minuzioso che consultando vari omeopati un paziente può venire sottoposto a colloqui differenti e possono essergli prescritti differenti rimedi. La medicina alternativa, pertanto, sfugge spesso ai test a cui è invece sottoposta la medicina convenzionale e poiché, per ora, sono rarissimi i casi di efficacia – e si tratta quasi sempre di rimedi offerti dalla fitoterpia – in cui la medicina alternativa ha presentato prove di validità equiparabili a quelle di una terapia convenzionale [4], la medicina alternativa si aggrappa all’incapacità di essere valutata con test ad hoc per giustificare l’assenza di un riconoscimento.

Eppure i termini “approccio olistico”, “terapia personalizzata” e “prove di efficacia” non sono realtà sempre incompatibili. Anche la medicina convenzionale, con il rapido aumento delle conoscenze proprio del XX secolo, è riuscita a inaugurare e alle volte a percorrere una strada che le permettesse di dare nuove vesti alle prescrizioni di Ippocrate, senza, allo stesso tempo, smentire la propria validità e quegli stessi strumenti di valutazione che l’hanno resa una disciplina solida ed efficace. A partire dal secolo scorso, la medicina convenzionale si è co-evoluta con la scienza che le ha restituito solidi dati per strutturare una “terapia personalizzata” perfettamente capace di confrontarsi con la standardizzazione richiesta nei trial su larga scala. La farmacogenomica e la farmacogenetica ne costituiscono un esempio.

Entrambe si basano sull’utilizzo del profilo genetico di un individuo per compiere la migliore scelta terapeutica,  facilitando anche la predizione di efficacia della medicina [5]. Ma mentre la prima si focalizza sullo studio di più geni, la seconda studia la modalità con cui il singolo gene condiziona la risposta farmacologica del paziente [6]. Tradizionalmente, i medici convenzionali curano i propri pazienti olisticamente: i medici generici, infatti, prendono in considerazione un gran numero di fattori, come lo stile di vita, la dieta, l’età, la storia familiare, il passato clinico e i risultati di un gran numero di analisi del paziente. L’informazione genetica di un paziente costituisce un ulteriore dato che potrebbe essere in grado di indicare al medico una terapia che tenga conto della storia e dell’unicità del caso. La farmacogenomica e la farmacogenetica si basano infatti su un numero sempre maggiore di evidenze che suggerisce una correlazione forte, in alcuni casi, tra una o più e varianti geniche e la risposta di un paziente a un particolare farmaco; il che rende ragionevole pensare che le decisioni cliniche possano essere condotte anche in base alle informazioni genetiche peculiari di quel paziente. Si tratta dello stesso approccio di Ippocrate. Solo, a più alta risoluzione.

La progettazione di un farmaco risponde principalmente a due domande: verificare la quantità di farmaco necessaria perché venga efficacemente assorbito dalle cellule bersaglio (farmacocinetica) e verificare come le cellule rispondono al farmaco (farmacodinamica). Tuttavia, per rispondere a queste domande i farmaci vengono testati su una grande fetta della popolazione e viene riportata solo la media delle risposte, trascurando pertanto risposte che se ne discostano [5]. Ad esempio, il recettore cellulare beta-2-adrenergico è il bersaglio di alcuni farmaci, da quelli per il trattamento dell’asma a quelli per il trattamento dell’ipertensione. Tuttavia, esistono diverse varianti – geneticamente determinate – per questo tipo di recettore a cui è stata correlata una differente risposta in pazienti aventi profili genetici diversi per il recettore [7]. La dinamica del farmaco potrebbe essere ottimizzata se si riuscisse a risolvere il grado e le modalità con cui il profilo genetico di un paziente ne determina la risposta, adottando così un approccio più individualizzato e in grado di gestire anche le risposte che si discostano dalla media. Lo stesso accade per il dosaggio: il dosaggio necessario alla guarigione di un paziente può, in alcuni casi, essere stimato in base al suo profilo genetico. È il caso della tiopurina [8], un farmaco impiegato nel trattamento della leucemia linfoblastica e nei pazienti sottoposti a trapianto d’organo. Questo farmaco è utile, sebbene sia anche tossico e stimare il corretto dosaggio per produrre un effetto terapeutico e ridurre l’effetto tossico sia complesso. Al fine di valutare la risposta di un paziente viene valutata la capacità di metabolizzare la tiopurina, cioè di eliminarla dall’organismo. A tal proposito, la tiopurina viene inattivata da un enzima, la tiopurina-S-metiltransferasi (TPMT), codificato da un gene polimorfico. Questo significa che l’enzima può esibire proprietà diverse a seconda del profilo genetico del pazienti. In particolare esiste una variante del gene per la TPMT, l’allele TPMT*3A, che produce un enzima degradato rapidamente. Nei pazienti che ospitano questa variante l’enzima è pressochè assente nei tessuti, rendendo il malato incapace di metabolizzare la tiopurina e rendendolo così più esposto agli effetti dannosi. Diversamente, un’altra variante genetica, il TPMT*3C, determina la presenza di un enzima attivo, capace di metabolizzare la tiopurina in modo efficace. Questi dati aiutano a stabilire il corretto dosaggio del farmaco, che può essere ottimizzato a seconda delle particolarità del paziente e del suo profilo genetico, rendendone più sicura la somministrazione e migliore la prognosi.

La farmacogenomica costituisce un approccio personalizzato solido, su cui la ricerca medica intende ragionevolmente investire considerando che secondo i dati della Food and Drug Administration gli effetti collaterali dei farmaci si verificano in 2 milioni di persone negli Stati Uniti e i costi relativi alle reazioni farmacologiche avverse note come adverse drugs reactions (ADR) ammontano a circa 136 miliardi di dollari all’anno [5]. Una grossa fetta delle ADR è dovuta agli effetti idosincratici del farmaco, cioè a effetti imprevedibili che non sono dovuti al dosaggio, né al sistema immunitario del paziente; sembrano, piuttosto, dovuti all’assenza di enzimi in grado di metabolizzare al farmaco. La variazione delle risposte potrebbe essere quindi geneticamente determinata e una medicina personalizzata “gene-based” sarebbe in grado, invece, di predirle, restituendo così notevoli benefici economici. Basti pensare a come la predisposizione genetica (mono- e multi-fattoriale) ad alcune patologie stia contribuendo a modificare il paradigma della medicina, abbattendo così molti costi non solo sanitari ma soprattutto umani. Quella che finora si è costituita come “medicina reattiva”, cioè una medicina che entra in azione solo alla comparsa del sintomo, sta pian piano convertendosi in “medicina preventiva”, che agisce prima dell’esordio patologico e si assicura sistemi sempre più sofisticati di cura. Ad esempio, è ormai consolidato il ruolo delle varianti genetiche del gene BRCA2 nella predisposizione al tumore al senso; tuttavia, la farmacogenomica non si ferma all’utilizzo di queste informazioni per agire in modo preventivo, ma anche in senso prognostico. È stato sviluppato così un tool diagnostico [9] in grado di analizzare le caratteristiche genetiche di una paziente con tumore al seno al fine di ottimizzarne le probabilità di guarigione. Gli indicatori genetici ottenuti dall’analisi istologica permetterebbero infatti di valutare al meglio la stadiazione del tumore e di indicare, in base a questa, le terapie più opportune da seguire, evitando così percorsi di cura costosi e dannosi per casi che non lo richiedono poiché a prognosi migliore[9].

La farmacogenomica ha tutte le carte in regola per procedere in modo personalizzato, predittivo e preventivo. Tuttavia la risposta farmacologica del paziente è quasi sempre multifattoriale, determinata pertanto da fattori ambientali e da fattori multi-genici ed è per questo che la farmacogenomica richiede ancora nuove evidenze empiriche e traslazioni cliniche – dallo studio al trial – in grado di conferire quella validità che la rende una medicina efficace e riproducibile.

L’approccio olistico, invece, e l’entità di personalizzazione della terapia in grado di offrire, è sostenuto dall’effetto placebo [4].

La personalizzazione della terapia si trova quindi di fronte a sue strade: l’una, “gene-based”, rappresentata dalla farmacogenomica; l’altra “placebo-based”, rappresentata dall’approccio olistico della medicina alternativa. Ma è giusto che i finanziamenti per la terapia personalizzata restituita dalla farmacogenomica – in grado di reggere ai test di valutazione propri della medicina basata sulle prove di efficacia – debbano essere sottratti per sostenere una terapia personalizzata fondata sull’effetto placebo e incapace di confrontarsi alla prova dei fatti? Al momento non esistono evidenze scientifiche in grado di dimostrare che il trattamento alternativo sia più efficace di quello convenzionale [8]. Il placebo ha sicuramente effetti sorprendenti, ma finanziare una terapia personalizzata basata sul placebo ha grossi rischi. Non solo le industrie farmaceutiche non affronterebbero il costoso percorso dello sviluppo di autentici farmaci, poichè anche semplici pillole di zucchero lo possono suscitare [4], ma il medico stesso verrebbe meno al suo ruolo deontologico, che è quello di comprendere la malattia e le sue cause, riducendo il suo esercizio a un’affabile seduta di persuasione. Verrebbe meno, cioè, quel rapporto di fiducia e di reciproca informazione che costituisce il sesto punto del giuramento di Ippocrate.

È necessario allora fare un bliancio ponderato: perché solo attraverso prove robuste e riproducibili una terapia, comunque personalizzata, sarà in grado di adattarsi alle esigenze di tutti.

Bibliografia:

[1] Sykiotis, G. P., et al., Pharmacogenetic principles in the Hippocratic Writings. Journal of Clinical Pharmacology, 45: 1218-1220 (2005)

[2] American Holistic Medical Association (http://www.holisticmedicine.org/)

[3] Holistic Health. English Wikipedia

[4] Simon Sigh & Edzard Ernst, Trick or Treatment? Alternative medicine on trial. Bantam Press (2007)

[5] Adams, J. (2008) Pharmacogenomics and Personalized Medicine. Nature Education 1 (1)

[6] Shastry, B. S., Pharmacogenetics and the concept of individualized medicine, The Pharmacogenomics Journal (Nature Publishing Group) 6: 16–21 (2006)

[7] Goldstein, D. B., et al., Pharmacogenetics goes genomic. Nature Reviews Genetics 4: 937–947 (2003)

[8] Weinshilboum, R., & Wang, L. Pharmacogenomics: Bench to bedside. Nature Reviews Drug Discovery 3: 739–748 (2004)

[9] Paik, S., et al. A multigene assay to predict recurrence of tamoxifen-treated, node-negative breast cancer. New England Journal of Medicine 351: 2817–2826 (2004)

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