“Nella Repubblica, non c’è posto per la razza”, così dichiarò nel 2012, l’ex presidente francese Nicolas Hollande, promettendo il suo impegno nel cancellare il termine “razza” dalla Costituzione e appoggiando la proposta dell’Assemblea Nazionale.
Successivamente la proposta di legge si arenò e non andò a buon fine, ma l’eco della tentata eliminazione del termine si diffuse e trovò seguito anche in Italia, dove nel 2014 gli antropologi Olga Rickards e Gianfranco Biondi si rivolsero alle più alte cariche dello Stato, sostenuti dall’Istituto italiano di antropologia e dall’Associazione nazionale universitaria antropologi culturali; “è chiaro a tutti che abolire il termine ‘razza’ non significa certo abolire il razzismo: le parole però, come il fuoco e la ruota, sono uno strumento tecnico inventato dall’uomo di potenza devastante”, come è riportato nel libro “No razza, sì cittadinanza” curato da molti studiosi italiani.
La questione è quindi molto attuale e per affrontarla al meglio è importante avere un quadro di come il concetto di razza sia evoluto con il progresso scientifico e di come sia cresciuto e si sia sviluppato insieme alla psicologia umana.
Nel “Systema naturae” di Linneo del 1735, la specie Homo sapiens viene suddivisa in diversi sottogruppi o razze: europeus, asiaticus, americanus, afer (africani), monstruosus e ferus (uomini selvaggi).
Già pochi anni dopo, nel 1749, George-Louis Leclerc, nell’“Historie Naturelle” afferma che la diversità morfologica e culturale alla base delle differenze tra individui derivi dalle differenti caratteristiche dell’ambiente in cui questi vivono, ma mantiene una visione “razzista”, andando a distribuire su una scala gerarchica le caratteristiche morfologiche, intellettive e culturali, collocando in alto i bianchi e in basso i neri.
Come se non bastasse, alla fine del ‘700 la disuguaglianza tra individui divenne una teoria ritenuta scientifica a causa dell’influenza degli studi frenologici e morfometrici, fino alla pubblicazione nel 1852 del “Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane”, da parte di Joseph Arthur de Gobineau.
Nel corso dei cento anni successivi, dalla metà del XIX secolo alla metà del XX, due avvenimenti rivoluzionarono il modo di interpretare l’evoluzione umana e con essa il concetto di razza: la pubblicazione de “L’Origine delle specie” nel 1859, da parte di Charles Darwin e la scoperta del DNA nel 1953.
Il libro di Darwin segna una delle più importanti rivoluzioni, non solo scientifiche ma anche culturali, della storia: le specie viventi mutano e variano nel tempo, trasmettendo alcune di queste variazioni alla loro discendenza; non ci sono quindi specie migliori o peggiori di altre, ma solo specie che si adattano diversamente ad un dato ambiente, anch’esso mutevole. Inoltre nel 1871 Darwin pubblica “L’Origine dell’uomo”, in cui si schiera contro la schiavitù, asserendo che l’uomo forma una sola e unica specie.
La scoperta del DNA è invece una rivoluzione che possiamo definire tecnica ma che ha influenze paragonabili alle teorie Darwiniane; infatti nella seconda metà del ‘900 gli studi di genetica vennero applicati alle popolazioni umane dimostrando che ognuno di noi condivide con qualsiasi altro essere umano il 99,9% del patrimonio genetico.
Questa differenza dello 0,1% non è sufficiente a distinguere raggruppamenti di individui che corrispondano a razze diverse.
Ma quindi, dimostrato che a livello genetico e culturale le razze non esistono, a cosa è dovuto il razzismo?
I risultati di uno studio del 2012 pubblicato su Nature Neuroscience dimostrano come anche il cervello di chi dichiara di non avere pregiudizi di sorta mostra preferenze per immagini di individui ritenuti più familiari; questa risposta è dovuta all’attivazione di aree neurali che regolano le emozioni e le capacità di prendere decisioni.
Dunque l’essere orientati verso individui che morfologicamente ci somigliano corrisponderebbe ad una preferenza innata.
Siamo quindi predisposti al razzismo? Biologicamente sembrerebbe di sì.
Ma è anche chiaro che l’uomo ha evoluto una capacità cerebrale e di conseguenza una consapevolezza di se stesso che lo ha portato a sviluppare una forte componente culturale, rappresentata da norme etiche e sociali, tramite le quali possiamo “correggere” il nostro comportamento.
Le leggi razziali fasciste, applicate in Italia tra il 1938 e il 1945, sono uno degli errori più gravi di un essere culturalmente evoluto come l’uomo, e senza dubbio un tragico sbaglio che andrebbe cancellato dalla storia umana.
D’altra parte, proprio perché si tratta di un terribile errore c’è chi pensa, come il genetista Guido Barbujani, che il termine andrebbe mantenuto nelle diverse Costituzioni: “nel momento della stesura dell’articolo 3, non era tanto la discussione sulle nostre differenze biologiche che contava, ma la recente e drammatica esperienza delle leggi razziali del 1938” afferma lo scienziato, sottolineando come la presenza del termine sia utile a tenere viva la memoria.
Fatto sta che, a prescindere da quale sia la posizione di ognuno, l’eliminazione del termine “razza” ha sicuramente una base ideologica forte e delle intenzioni più che nobili; la cosa più importante però, sarebbe riuscire ad accompagnarla ad un cambio di mentalità che, rispetto ad una Costituzione, è ben più difficile da modificare.