Nel 1928, lo scozzese Alexander Fleming scoprì la penicillina, che segnò l’inizio dell’era degli antibiotici e contribuì così allo sviluppo della medicina. Grazie alla scoperta di una muffa con azione prevalentemente battericida e alla conseguente realizzazione di un genere di farmaco che potremmo definire universale contro le infezioni causate da batteri, si riuscì a debellare una delle principali cause di mortalità di allora.
Oggi, mentre diamo ormai per scontate le cure antibiotiche, la nostra paura ha spostato il focus su altre malattie. Ma l’approccio riduzionistico con cui la medicina è avanzata fino ai giorni nostri, non ci consente di promuovere certe terapie. Un metodo riduzionista, infatti, non è in grado di spiegare perché lo stesso individuo, sottoposto agli stessi agenti patogeni, sviluppi certi sintomi in alcuni casi e non in altri, o perché un determinato agente curativo funzioni in una data percentuale di casi.
La realtà è che, mentre ci risulta abbastanza chiaro il funzionamento del corpo umano da un punto di vista macroscopico, non possiamo dire lo stesso da un punto di vista microscopico, per cui il comportamento dell’organismo valica le semplici questioni biofisiche e biochimiche.
Soltanto in un’epoca in cui ci siamo resi conto che i nostri organismi rispondono in maniera diversa ad una stessa terapia, la medicina ha iniziato a percepire i limiti di un approccio riduzionistico. Non è sufficiente pensare che le proprietà di ogni organismo siano intelligibili solo sulla base delle molecole o dei geni che lo compongono. Biologicamente, il problema non sta nelle caratteristiche delle singole molecole, ma delle relazioni tra di esse: i processi metabolici. Un fenomeno complesso non sarà quindi rappresentato da una catena di singoli anelli, ma dovrà essere visto come una rete, attraverso la quale potremo ottimizzare le relazioni tra le parti.
Come racconta il biologo Gianni Tamino in un suo articolo pubblicato nel 2006 sulla rivista Micron, “La logica dimostrazione della validità del dogma centrale doveva arrivare dal Progetto genoma umano, grazie al quale si doveva riconoscere il gene come punto di partenza di ogni carattere umano, in una visione che partiva dal riduzionismo biologico e arrivava al determinismo genetico. In realtà, quel progetto ha svolto un ruolo importantissimo nello smentire il dogma: il numero dei geni verificato dal progetto è, infatti, ben inferiore al numero delle proteine e, quindi, la spiegazione della complessità di un organismo non risiede solo nell’informazione contenuta nei geni, ma va cercata nell’ottimizzazione delle relazioni tra di essi, che possono sfruttare anche regolarità ambientali”.
L’analisi della complessità dei sistemi interagenti dovrà, quindi, prendere il posto di una visione riduzionista della realtà, che mira alla scomposizione di fenomeni complessi in modelli semplificati e interagenti mediante una catena causale. E tuttavia, dovremo stare attenti a non cadere nel “vitalismo”, che esalta la vita intesa come forza energetica al di là del suo aspetto biologico materiale e, come tale, rappresenta una visione antievoluzionista. La sfida della biologia sarà quella di indagare una materia che, nella sua complessità, manifesta un livello di ordine superiore a quello delle singole parti e si organizza così come un “nuovo tutto” che racchiude i segreti della vita.