La parola etnografia deriva dai vocaboli greci: ethnos (popolo) e grapho (scrivo); letteralmente significa “descrizione del popolo”, infatti è detta anche “Scienza del popolo”. Questa definizione compare la prima volta nel 1767 in un libro dello storico tedesco Johann Friedrich Schöpperlin[1], anche se questa disciplina ha origini ben più lontane; già gli antichi Egizi distinguevano i vari popoli, raffigurando i nemici catturati con un colore della pelle diverso, ad esempio gli abitanti della Libia venivano ritratti con una tonalità chiara di incarnato, gli etiopi con una sfumatura più scura. In seguito, negli studi dello storico greco Erodoto di Alicarnasso sono descritti per la prima volta i caratteri sociali ed etnografici di varie popolazioni antiche (Etiopi, Greci, Egizi, Sciti)[2].
Per quanto riguarda l’etnografia “moderna”, l’esploratore tedesco Gerhard Friedrich Müller è considerato uno dei padri fondatori di questa materia, grazie alle sue dettagliate descrizioni degli usi e dei costumi di alcuni gruppi etnici siberiani, effettuate nella prima metà del Settecento[3]. Questa scienza si amplia ulteriormente sul finire del XIX secolo, quando le grandi potenze imperialiste accrescono interessi conoscitivi sugli aspetti socio-culturali delle popolazioni da esse controllate. I primi scritti a carattere etnografico sono distinti da un forte stile pratico e concreto[4]: esempi di studi del periodo “classico” sono quelli dell’antropologo polacco Bronisław Malinowski (Gli argonauti del Pacifico occidentale, 1922) e di Evans-Pritchard (“Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande“, 1937). In Italia si misero in evidenza, oltre al caposcuola Giustiniano Nicolucci (1819–1904), che nel 1857 scrisse il primo trattato italiano di antropologia ed etnologia, Giuseppe Pitrè (1841-1916) considerato il più importante antropologo italiano e Paolo Mantegazza (1831–1910)[5], il primo docente universitario di questa disciplina. Fin dal principio, lo studio antropologico delle culture non europee fu spesso finalizzato, in modo più o meno consapevole da parte degli studiosi, alla dominazione e allo sfruttamento dei popoli entrati in contatto con il colonialismo europeo. Questi popoli per poter essere governati, dovevano innanzitutto essere identificati e ricondotti a schemi sociali-culturali precostituiti. La disciplina per tutto l’Ottocento fu dominata dalla teoria dell’evoluzione culturale, che spiegava come i differenti gruppi etnici fossero passati attraverso medesimi stadi di evoluzione. Secondo questo pensiero, i popoli selvaggi sparsi sui vari continenti potevano illustrare le condizioni di vita degli uomini preistorici[6]. Nel XX secolo la maggior parte degli antropologi rifiutarono questa teoria e svilupparono un metodo diretto di studio, vivendo per un certo periodo di tempo all’interno della società in esame, partecipando e osservando la vita sociale e culturale del gruppo (osservazione partecipante) [7]. Questo metodo di ricerca fu sviluppato dall’antropologo Bronislaw Malinowski[4], che svolse i suoi primi lavori sul campo nelle isole Trobriand. Contemporaneamente, agli inizi del XX secolo, si sviluppò il concetto di razza come sistema di classificazione degli esseri umani basato sulle loro differenze biologiche. In quest’ambito sono importanti anche le teorie di antropologia criminale di Cesare Lombroso riguardanti lo studio dei profili antropologici per identificare il criminale “tipo“[8].
Anche se non è ben chiaro quale sia l’origine della parola razza, probabilmente deriva dai termini latini radix o generatio o dall’arabo raz (origine/stirpe) [9]. Qualsiasi sia la sua etimologia, è certo che in passato la parola non aveva il significato attuale: per gli antichi la razza richiamava più l’identità familiare che non l’identità genetica. Il concetto attuale, inteso come gruppo di persone con caratteristiche fisiche e comportamentali definite, ha una storia piuttosto recente; risale al XVIII secolo, quando il medico svedese Carlo Linneo, tassonomo di numerose specie viventi, tenta una classificazione del genere umano (Homo), inserendo nel suo libro, il Systema naturae del 1758, due specie appartenenti all’ordine dei primati: Homo sapiens e Homo troglodytes. A quest’ultima appartengono le scimmie antropomorfe, tra cui i gorilla, mentre la specie sapiens è costituita da sei sottogruppi o razze: Homo europeus, asiaticus, americanus, afer, monstruosus e ferus (uomini inselvatichiti). Per distinguere questi gruppi Linneo sceglie sia caratteri anatomici sia culturali che ritiene significativi, compreso il modo di vestire. Occorre attendere il 1859 e la pubblicazione dell’Origine delle specie perché Charles Darwin metta un primo punto fermo sul problema delle razze: le specie viventi, compresa quella umana, non sono esseri stabili, ma si modificano nel tempo e si evolvono adattandosi ai mutamenti dell’ambiente in cui vivono. Sempre secondo lo studioso inglese, non ci sono specie o razze migliori in assoluto, ma solo quelle più o meno adatte a sopravvivere in un ambiente che si trasforma. Un secondo e più importante punto fermo Darwin lo fissa dodici anni dopo, nel 1871, quando pubblica L’origine dell’uomo. In quest’opera, egli afferma che l’uomo forma una sola e unica specie e “quelle che vengono chiamate razze non sono abbastanza distinte da abitare una medesima regione senza fondersi”. Quello di Darwin è un autentico e autorevole manifesto antirazziale, la prima teoria scientifica che elimina il concetto di razza umana.
È la genetica a porre la parola fine al dibattito sulle razze. Recenti studi sulle caratteristiche del DNA umano hanno dimostrato che la specie umana è una sola, che ha avuto origine nell’area del corno d’Africa circa 200.000 anni fa, e che al suo interno non ci sono ragioni obiettive per individuare una tassonomia di profili genetici distinti tra loro[10]. Il concetto di razza non esiste scientificamente, nemmeno per i cani e i gatti, perché dal punto di vista biologico non è presente nessuna distinzione netta tra i diversi gruppi di individui di una stessa specie[11].
Negli ultimi anni il termine razza viene spesso sostituito da “tipi umani”, “etnie” o “popolazioni”. Nessuno di questi termini comprende un’accezione associata, in passato o anche nel presente, a scopi discriminatori.
Opere citate
[1] Edward E. Evans-Pritchard, Witchcraft, oracles, and magic among the Azande, 1937
[2] Albera D., Blok A., Bomberger C., Antropologia del Mediterraneo, Guerini, Milano, 2007.
[3] Aleksander Ch. Elert, G. F. Müller, ·Ekspedicionne materialy G. F. Millera kak istočnik po istorii Sibiri (Diario del viaggio nella penisola di Kamčatka 1733-1743, ristampa Novosibirsk, 1990
[4] B. Malinowski, Oggetto, metodo e fine della ricerca, introduzione alla sua prima monografia sulle isole Trobriand, Argonauts of the Western Pacific, 1922.
[5] Giovanni Landucci, Darwinismo a Firenze. Tra scienze e ideologia (1860-1900), Firenze, Olschki, 1977
[6] Barnard, A., Storia del pensiero antropologico, Il Mulino, Bologna, 2002.
[7] Malighetti, R., Clifford Geertz. Il lavoro dell’antropologo, Torino, Utet, 2008
[8] Luigi Guarnieri, L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso, Mondadori, Milano, 2000
[9] Leonardo Rossi, Breve storia della lingua italiana per parole, Loescher, 2005
[10] Luigi Luca Cavalli Sforza, Paolo Menozzi, Alberto Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, 2000
[11] Natalie Angier, Do Races Differ? Not Really, DNA Shows, in The New York Times, 22 agosto 2000