L’emergenza raccontata dai medici di famiglia

Nei poco più di tre mesi dall’inizio dell’epidemia di coronavirus (SARS-CoV-2) in Italia, le categorie professionali più esposte in termini di impegno lavorativo, stress e rischi che hanno dovuto affrontare sono stati i medici e gli infermieri degli ospedali delle zone più colpite del Nord Italia. L’altissimo afflusso di pazienti si è scontrato con la mancanza di risorse a disposizione specialmente nei reparti di terapia intensiva. Questo sovraccarico di lavoro improvviso, con le relative problematiche dovute a un’emergenza senza precedenti, si è distribuito sulle strutture del sistema sanitario nazionale, dalle ASL agli operatori delle ambulanze, e in particolare su una categoria poco raccontata: i medici di medicina generale, cioè i medici di famiglia.

I racconti pubblicati in questi mesi sui giornali e sui social network descrivono una categoria professionale lasciata a se stessa nella gestione dei pazienti nel mezzo dell’epidemia, priva degli strumenti necessari per affrontarla sia dal punto di vista delle linee guida e dei protocolli da seguire, sia per quanto riguarda i dispositivi di protezione individuale.
Di tutti i medici deceduti in Italia nel periodo di emergenza coronavirus, esattamente un terzo erano medici di famiglia.

Abbiamo voluto ascoltare anche noi il racconto diretto di un* di loro – che ha preferito rimanere anonim*- che lavora a Milano, quindi in una delle regioni che è stata particolarmente colpita da questa emergenza.

1. Come ha deciso di gestire inizialmente l’emergenza? Ha avuto linee guida ufficiali a cui appoggiarsi?

Linee guida ufficiali assolutamente no, sicuramente non da parte di ATS (Agenzia di Tutela della Salute). Invece il sindacato a cui sono iscritt* della FIMMG (Federazione Italiana Medici di Medicina Generale) è stato estremamente efficiente nel fornirci linee guida da subito. Il primo allarme è stato il 21 febbraio e loro già la sera o la mattina dopo hanno fornito una serie di indicazioni, quasi fosse più una società scientifica che un sindacato. E’ stata sempre puntuale e ci ha aiutato molto mentre le linee guida di ATS sono arrivate tardissimo e comunque molto parziali.

2. Ha ricevuto adeguati dispositivi di protezione individuale?

No assolutamente, ne avevo comprati un po’ per conto mio i primissimi giorni e poi ce ne sono stati dati un po’ a spizzichi e bocconi da donazioni varie sempre tramite il sindacato piuttosto che comune, sindaco e qualcosa da ATS.

3. Se ha avuto pazienti risultati positivi, è riuscit* a eseguire il tampone per se stess*?

In realtà ho avuto un caso immediatamente il primo giorno che è stato ricoverato con una polmonite da coronavirus, chiaramente essendo il primo giorno l’ho visitato senza nessun DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) per cui poi sono stata segnalata come contatto e sono stata in quarantena. Al termine della quarantena non mi hanno fatto né tampone né sierologico, non mi hanno fatto nulla e ho ripreso a lavorare.
Una volta tornata a lavoro non ho più avuto contatti con possibili infetti perché a quel punto l’indicazione era assolutamente di non far accedere in ambulatorio pazienti con sintomi. Abbiamo gestito quasi tutto telefonicamente. Per lo meno i casi gestibili a casa.
Per tutti gli altri pazienti ho continuato a visitare in studio, chiaramente riducendo sempre di più per evitare assembramenti in sala d’aspetto.

4. Qual è stato, dal suo punto di vista, l’aspetto più frustrante (se presente) nella gestione di questa situazione?

Sicuramente l’isolamento in cui ci siamo ritrovati noi medici di base, senza una regia, un referente. A livello territoriale non è stata gestita per niente. Ci siamo gestiti tra noi colleghi, scambiandoci opinioni ma effettivamente nessuno ci ha detto davvero cosa fare. Ad esempio non è mai stata fornita una definizione ufficiale e univoca di “caso sospetto”.
Quando a metà marzo c’è stato quel picco spaventoso di ricoveri io avevo molti pazienti sintomatici (di cui poi alcuni si sono aggravati e sono riuscita a farli ricoverare), è stato molto pesante gestire la loro ansia ma anche la mia di ansia. Alcuni erano pazienti quasi al limite e in quei casi mi è capitato spesso di chiamare il 112, ma non uscivano se c’era ancora una saturazione discreta. Io avevo pazienti che vivevano anche da soli, completamente isolati, magari con una rete familiare però nessuno poteva accedere. Quindi venivano gestiti per giorni così, telefonicamente senza riuscire a farli portare in ospedale. Da questo punto di vista è stato molto pesante.
Da parte di noi medici c’è stata una disponibilità h24, 7 giorni su 7 anche perché le USCA (Unità speciali di continuità assistenziale) sono arrivate molto tardi, quando ormai il momento più critico dell’epidemia era passato quindi è arrivato sempre tutto in ritardo.

5. Ora si vede un miglioramento anche dal punto di vista della sua categoria professionale?

Oltre all’evidente miglioramento nell’andamento dei contagi, c’è ancora una grande disorganizzazione.
Dall’11 maggio possiamo finalmente richiedere i tamponi per pazienti con sintomi sospetti, ma questo avviene dopo quasi 3 mesi dall’inizio dell’epidemia, quando la situazione è ovviamente più sotto controllo. Se non altro ora il tampone viene sempre eseguito in seguito alla richiesta del medico di famiglia, anche da parte di colleghi ho avuto resoconti positivi nel senso che è stato eseguito il tampone sui loro pazienti dopo 2-3 giorni dalla richiesta. Io finora ne ho richiesti due, uno dei quali però sta aspettando da 12 giorni.
Sicuramente ci sono ancora diversi margini di miglioramento dal punto di vista dell’organizzazione nella gestione di questa emergenza sanitaria.

L’intervista è stata realizzata alla fine di maggio.

          

Fonti                                                                                                                                 
https://www.ilpost.it/2020/03/19/coronavirus-medici-famiglia-italia/   

https://portale.fnomceo.it/elenco-dei-medici-caduti-nel-corso-dellepidemia-di-covid-19/

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