A partire dagli ultimi mesi del 2014 in Italia si sta svolgendo un dibattito sull’opportunità di abolire la parola “razza” dalla Costituzione. L’Assemblea Costituente ha scelto di utilizzare questo termine con lo scopo di prendere le distanze dalle discriminazioni perpetrate dal regime fascista durante gli anni della dittatura. Oggi alcuni sostengono che la parola “razza” abbia assolto con pienezza a questo compito e che quindi possa essere sostituita con altre espressioni corrette dal punto di vista scientifico, mentre altri ritengono che una modifica all’articolo 3 della Costituzione non sia opportuna. Mentre il dibattito nazionale prosegue, vediamo come alcuni Paesi hanno affrontato il tema della parola “razza” nella loro Costituzione.
Uno degli stati che, come il nostro, ha perpetrato discriminazioni su basi razziali è la Germania. In questo Paese la parola “razza” appare nella Costituzione ma, secondo il giurista britannico Bruce-Jones, non viene percepita come contemporanea nel discorso sociale o politico. Il termine tedesco “rasse” infatti è usato per descrivere il pensiero nazional socialista del periodo nazista e di conseguenza non ha alcuna relazione con l’attualità. L’inglese “race” riguarda invece un fenomeno percepito come lontano, che interessa principalmente i paesi anglosassoni. Questo non vuol dire che in Germania sia stato risolto il problema dell’intolleranza e dell’integrazione. Per riferirsi a questi fenomeni, i tedeschi utilizzano termini più neutri, come “xenofobia”. Nonostante questa presa di distanza dalle discriminazioni messe in atto dai nazisti, il Country Reports on Human Rights Practices del 2016 rivela che in Germania ancora oggi avvengono molti episodi di intolleranza su base razziale, soprattutto perpetrati da gruppi di estrema destra.
In Francia invece la questione sulla presenza della parola “razza” nella Costituzione è già stata affrontata nel 2013. Durante la campagna elettorale Hollande aveva promesso che avrebbe abolito quel termine. Nell’estate del 2013, dopo la sua elezione, effettivamente è stato aperto un dibattito sull’opportunità di abolire la parola “razza” non solo dalla Costituzione, ma dalle leggi dello Stato francese. Gli argomenti non sembrano lontani da quelli che oggi sentiamo in Italia: i sostenitori del cambiamento ritenevano che nel corpus giuridico non dovesse esserci spazio per un termine pseudoscientifico, mentre gli oppositori osservavano che per combattere i comportamenti razzisti non sarebbe stato sufficiente smettere di usare la parola “razza”. Nonostante i pareri contrastanti, al termine del dibattito è stata accolta la proposta di Hollande. Quella decisione è in linea con l’approccio che lo Stato francese vuole adottare con le sue minoranze: rapportarsi con l’individuo senza guardare alla comunità sociale, religiosa e culturale a cui appartiene. Anche nel caso della Francia però le scelte politiche non sono state sufficienti a sradicare fenomeni di intolleranza e discriminazione, soprattutto nei confronti degli immigrati di origine nordafricana.
Nel Regno Unito la situazione appare più complessa. Innanzitutto lo Stato non ha una carta costituzionale paragonabile a quella italiana, tedesca o francese. Invece i principi fondamentali del Regno emergono dal corpus giuridico. Quindi l’orientamento del Paese di fronte all’uso della parola “razza” deve essere dedotto a partire dalle sue leggi. Tra queste, l’Equality Act 2010 prende una posizione precisa sul tema. L’Equality Act è la legge che tutela le minoranze britanniche; nel 2010 ha sostituito il Race Relations Act, in vigore dal 1965. Se da un lato il nome della nuova legge non contiene più la parola “razza”, essa è indicata più volte come una delle caratteristiche protette rispetto alla quale nessun essere umano deve essere discriminato. Uno degli ambiti in cui l’Equality Act viene applicato è quello dei concorsi pubblici, nei quali i candidati devono dichiarare la propria razza. Tra le scelte disponibili compaiono delle distinzioni molto precise, al punto che anche i “bianchi” sono spesso divisi tra “bianchi britannici”, “bianchi irlandesi” e “bianchi di altra origine”. Per i britannici, quindi, la parola “razza” non è così controversa come lo è nell’Europa continentale, forse anche a causa della distanza dalle discriminazioni compiute da Italia, Francia e Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa differenza è rilevata anche nel Country Reports on Human Rights Practices: secondo il rapporto, le discriminazioni messe in atto nel Regno Unito riguardano soprattutto le minoranze di origine asiatica.
Vediamo ora com’è la situazione fuori dall’Europa. Gli statunitensi sono orgogliosi che nella loro Costituzione la parola “razza” compaia solo nel XV emendamento, che risale al 1870. L’emendamento introduce questo termine per dare enfasi all’universalità del diritto di voto. Eppure è utile ricordare che, per passare dalle indicazioni costituzionali all’effettiva libertà di voto ci sono voluti altri cinquant’anni, quando il XIX emendamento ha rimosso la discriminazione di sesso e ha ammesso anche le donne al voto. Inoltre la storia delle disuguaglianze e delle discriminazioni negli Stati Uniti non riguarda solo il diritto al voto, ma soprattutto il difficile rapporto tra i bianchi e i neri. Ufficialmente le disuguaglianze sono terminate intorno alla metà degli anni ’60, ma nella realtà dei fatti il problema dell’integrazione delle minoranze è ancora molto attuale.
Anche in Cina, che non brilla per uguaglianza sociale, la parola “razza” viene usata nella Costituzione per sancire il diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni. Questo non impedisce al governo cinese di discriminare nei confronti delle minoranze etniche, come gli igur, e delle popolazioni che abitano ai confini dello Stato, come quella tibetana. Inoltre l’effettiva uguaglianza nella partecipazione alla vita politica è molto limitata, come denuncia il Country Reports on Human Rights Practices: nelle ultime elezioni il voto dei cinesi ha avuto scarso impatto sulla scelta dei governanti, che invece sono stati imposti dal Partito Comunista.
Concludiamo con l’analisi di un Paese molto particolare: l’Islanda. Da diversi anni questo Stato è in cima alle classifiche di uguaglianza economica, di genere e sociale. Anche nella Costituzione islandese compare il termine “razza” nell’articolo che tutela l’uguaglianza degli individui di fronte alla legge. Eppure anche in questo Paese il Country Reports on Human Rights Practices ha denunciato alcune discriminazioni nei confronti dei richiedenti asilo, soprattutto rispetto all’accesso al lavoro e all’assistenza sanitaria.
Da questi esempi sembra emergere che la lotta alle discriminazioni si giochi su un terreno diverso rispetto a quello delle scelte lessicali del corpus giuridico. Tutto sommato, non dovremmo sorprenderci: da sempre sappiamo che, come diceva Mark Twain, “i fatti parlano più forte delle parole, ma molto meno di frequente”.