La presunta correlazione tra l’inquinamento dell’aria e la diffusione del Covid-19 si è di recente affacciata all’attenzione non solo della cronaca, ma anche di ipotesi scientifiche ancora da esplorare e in via di definizione.
Ne abbiamo parlato con il dott. Fabrizio Bianchi, ricercatore in epidemiologia ambientale al CNR di Pisa che ci guiderà nella complessità dell’argomento, invitandoci a non fermarci a facili correlazioni, che non giovano né alla scienza né alla sua comunicazione.
Per introdurre il tema potrebbe fare una breve premessa su che cosa la scienza intende con inquinamento atmosferico, soprattutto in relazione agli inquinanti considerati più pericolosi per la salute umana?
L’inquinamento atmosferico è un concetto ampio che coinvolge tutti gli inquinanti presenti nell’atmosfera distinti in microinquinanti e macroinquinanti. Tra i macroinquinanti quelli più conosciuti sono gli ossidi di azoto (NOx), e tra questi il biossido di azoto(NO2), gli ossidi di zolfo (SO2), l’ozono (O3) e le polveri o particolato. Le particelle sono di diversa dimensione, misurata in micrometri (1 µm corrisponde ad un millesimo di millimetro), solitamente classificate in PM10, PM2.5, PM1 o anche inferiori a 0,1 µm. Minori sono le dimensioni maggiore è la loro penetrazione in profondità nel corpo umano, dalla cavità orale o nasale, alla laringe, fino agli alveoli polmonari. Quelle che arrivano nel polmone profondo, attraverso gli alveoli, entrano direttamente nel torrente ematico e possono così arrivare a gran parte degli organi.
I microinquinanti sono centinaia se non migliaia: il benzene e alcuni composti benzenici sono particolarmente noti e pericolosi perché sono riconosciuti come cancerogeni, ma anche le polveri lo sono, così come alcuni metalli pesanti.
Le fonti del particolato atmosferico si dividono in fonti primarie e fonti secondarie. Le primarie, si riferiscono a emissioni dirette sia da fonti naturali (sale marino, azione del vento, pollini, eruzioni vulcaniche, ecc.) sia da fonti antropiche (traffico, riscaldamento, processi industriali, inceneritori, ecc.). Le fonti secondarie sono riferite alla condensazione di molecole presenti in fase gassosa, che poi si coagulano fino a formare aerosol con diametri compresi tra 0,1 µm e 1 µm e dipendono moltissimo dalla reattività chimica a partire dal particolato di origine primaria.
Quindi siamo davanti ad un vero e proprio zoo di elementi inquinanti. Limitandoci ai macroinquinanti, quali attività umane ne immettono nell’atmosfera il maggior numero?
Si tratta di elementi per lo più provocati da combustione, che, a seconda del tipo, produce un maggiore quantità di alcuni inquinanti rispetto ad altri: ad esempio le combustioni dei motori a scoppio producono soprattutto gli ossidi di azoto e polveri.
Le combustioni industriali come quelle di impianti alimentati a petrolio, carbone o biomasse, producono diverse tipologie di inquinanti; in generale gli impianti alimentati con combustibili fossili producono ossidi di azoto, biossido di zolfo, composti organici volatili e metalli pesanti, se a legna si producono polveri che contribuiscono ai macro inquinanti, ma anche microinquinanti come diossine a seconda delle impurità nelle combustioni (esempio presenza di plastiche, carta, materiale organico).
Abbassare il livello di inquinamento implica una strategia complessa, composta da tante azioni e misure che impattino tutte queste combustioni, quindi non solo quelle legate al traffico, che incidono per meno del 30% (e soprattutto causate dal traffico pesante), ma anche quelle industriali e dei riscaldamenti a legna e pellet. Sapendo anche che la concentrazione di inquinanti dipende molto dalle condizioni meteoclimatiche, dalla presenza di piante con caratteristiche depuranti, di attività umane di rivolte alla mitigazione, quale ad esempio il lavaggio delle strade.
Il biossido di carbonio (CO2), e anche l’ossido di diazoto (N2O) e il metano (CH4), pur avendo un impatto diretto meno importante sulla salute, sono i cosiddetti gas serra, importanti contributori al riscaldamento e ai cambiamenti climatici.
E oggi è chiaro, grazie a migliaia di articoli scientifici degli ultimi decenni, che c’è un nesso di casualità fra l’essere esposti a queste sostanze inquinanti ed effetti sulla salute, soprattutto attraverso la respirazione, senza trascurare l’ingestione e il contatto cutaneo.
A questo proposito potrebbe approfondire il legame tra inquinanti e salute, identificando gli inquinanti più pericolosi e gli effetti sulla nostra salute?
Le possibili interazioni tra inquinamento dell’aria e salute sono molteplici e ben documentate. Si tratta di effetti di tipo sia cancerogeno che non cancerogeno. In primo luogo ci sono effetti dovuti a esposizioni a lungo termine, quelle che si generano restando per lunghi periodi (anni) esposti ad inquinamento, che è pericoloso anche quando non elevatissimo, con concentrazioni inferiori rispetto alle soglie stabilite dalla legge, che sono più permissive di quelle suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Poi esistono anche le esposizioni a breve termine, che corrispondono a picchi di innalzamento che però danno subito risultati in termini di malattie acute come l’infarto o malattie respiratorie acute, magari agendo su persone già malate, o rese più suscettibili da esposizioni a lungo termine.
C’è un volume della OMS che riconosce la cancerogenità per l’uomo delle polveri, a partire dall’effetto più logico cioè quello sull’apparato respiratorio; però attraverso il meccanismo di spostamento nel sangue delle particelle, che arrivano agli altri organi, sono stati studiati gli effetti sul cuore attribuibili a meccanismi infiammatori e sul sistema nervoso e sul cervello, perché dovunque arrivano queste particelle cariche di inquinanti perturbano il normale funzionamento biologico.
Quindi abbiamo a che fare con uno spettro enorme di effetti, soprattutto nei bambini, negli anziani, nei malati, negli immunodepressi e altre fasce più suscettibili all’inquinamento. Questi effetti sono ben conosciuti e si conoscono le funzioni di relazione tra esposizione e risposta, dette anche funzioni di rischio: cioè valori di rischio corrispondenti alla relazione che c’è tra un certo aumento dell’esposizione ad un inquinante e aumento del rischio di effetto sulla salute, soprattutto in termini di mortalità e per alcuni inquinanti anche di morbosità.
Le cosiddette valutazioni di impatto misurano la relazione tra dose o concentrazione a cui le persone sono esposte con la risposta in termini di probabilità di effetto sulla salute, una procedura che applicata a gruppi di persone o comunità più esposte, consente di stimare gli eccessi di mortalità e di morbosità dovuti all’aggravio dell’inquinamento oppure viceversa, se si diminuisce l’inquinamento, quanti casi, quante malattie diminuiscono o quanti anni di vita si guadagnano.
Sono queste valutazioni di impatto che permettono di stilare le ormai note stime per cui in Italia ci sono dai 60 agli 80 mila morti in più all’anno dovute alle esposizioni alle polveri (PM2,5). Al proposito è da precisare che le differenze delle stime, anche cospicue, sono dovute ad approcci diversi, non tanto per l’uso di differenti funzioni di rischio ma piuttosto per un uso diverso dei riferimenti di inquinamento in situazioni considerate accettabili, cioè scegliendo valori più bassi o più alti dei valori di fondo a cui riferirsi.
Sappiamo che recentemente si è ipotizzato che la diffusione del nuovo coronavirus SARS-CoV-2 sia in correlazione con un alto tasso di inquinamento di alcune regioni in Italia. Esistono studi che possano fare chiarezza su questa ipotesi?
La mente umana ragiona facilmente per correlazioni, meglio se semplici, manon è detto che questo implichi una relazione causale; cioè dimostrare che A è legato a B non dimostra che B sia causato da A o che B dipenda solo da A. Si tratta di due concetti ben distinti che spesso nei media non sono molto chiari, e purtroppo talvolta anche nella comunità scientifica, per cui la presenza di correlazioni viene trasformata in relazione causale che è un po’ un passo nel baratro.
Si sa che in aree inquinate c’è un rischio di osservare più casi di tumori del polmone, di infarti del miocardio, di polmoniti e malattie cardiorespiratorie, relazioni per le quali è stata documentata la causalità.
Oggi diversi studi di correlazione geografica effettuati in numerosi Paesi, ma soprattutto Italia e USA, ci dicono che in aree a maggiore inquinamento atmosferico è stata osservata una frequenza maggiore di casi o decessi per Covid-19. Si tratta di studi con modelli più o meno sofisticati, ma per tutti anche quelli più evoluti, resta il fatto che comunque si tratta di studi di correlazione.
Non basta scrivere tra i limiti dello studio che il disegno adottato non è adatto a stabilire una relazione causale oppure usare verbi al condizionale per attenuare le conclusioni (del tipo “potrebbe essere dovuto a…”) perché, da una parte, i media solitamente non si soffermano sui distinguo e sulle cautele, e, dall’altra, perché a livello scientifico occorre indagare a fondo come e quanto esposizioni a lungo termine e a breve termine abbiano “favorito” il Covid-19, che come causa generale ha l’esposizione al virus e non l’inquinamento. L’asserzione corrente sui lavori scientifici e poi ripresa dai media “Il coronavirus uccide di più nelle aree più inquinate”, andrebbe rovesciata in “ecco quanto nelle aree più inquinate i residenti sono più sensibili al virus” e ancora “ecco come e quanto l’esposizione a inquinamento può aumentare la probabilità di contagio”.
Per rispondere a queste domande gli studi di correlazione non sono adatti; per testare queste ipotesi servono studi non di correlazione, ma di tipo analitico, recuperando informazioni a livello di individui; occorrono modelli in grado di tenere conto innanzitutto che Covid-19 è una malattia infettiva prodotta dalla trasmissione del virus attraverso la via del respiro e che senza il contatto non c’è neanche la possibilità di malattia. Quindi qual è il ruolo dell’inquinamento atmosferico? Ci possono essere più ruoli, può avere un ruolo sulla suscettibilità delle persone, ci può essere un effetto sulla probabilità di contagio, sulla comparsa dei sintomi e anche sulla gravità e decorso della malattia.
Per di più sulla diffusione e virulenza del virus possono influire altre variabili non legate all’inquinamento come la temperatura, l’umidità o i pollini, ad esempio. Quindi è necessario studiare come e quanto l’esposizione all’inquinamento atmosferico (sia acuta, a breve termine, sia cronica, a lungo termine) agisca in soggetti esposti rispetto a soggetti non esposti, per i quali occorre anche sapere quando e come hanno mostrato i sintomi (esempio per contagio in RSA), quando hanno sviluppato la malattia, come è evoluta la malattia (aggravamento, decesso, guarigione).
A questo bisogna aggiungere le conoscenze consolidate sulle malattie dovute a esposizione a inquinamento dell’aria, soprattutto malattie respiratorie, cardiovascolari, tumorali, che rappresentano anche larga parte della comorbidità del Covid 19. Per riassumere, con gli studi di correlazione si esplora l’esistenza di un legame e, se esiste una traccia, si formula un’ipotesi di lavoro; poi c’è bisogno di un modello più evoluto per valutare tale ipotesi.
Ad oggi il coronavirus ha fatto oltre 32.000 morti in più rispetto all’attesa, ma la previsione è che si salga ancora, d’altra parte non si può sottostimare il fatto che l’inquinamento ne provoca tutti gli anni circa il doppio. E’ evidente che c’è una sensibilità diversa, perché dei morti da covid19 si sanno nomi e cognomi, mentre quando si dice che le malattie ambientali fanno morti e malati in più, si dice il numero, ma non chi sono; si sa quanto è grossa la fetta della torta, ma non si sa dire chi siano i soggetti che sono dentro quella fetta.
Si parla, infatti, di malattie non trasmissibili per quelle che non si trasmettono da uomo a uomo, sono cronico degenerative e rispondono ad un meccanismo diverso da quello deterministico di una malattia infettiva, del tipo vibrione genera colera, ma probabilistico. Cioè, per esempio, l’esposizione al fumo di sigaretta è altamente probabile predisponga o faciliti lo sviluppo del tumore al polmone, ma non è certo e questa è la grande differenza tra il meccanismo probabilistico e quello deterministico.
In che modo possiamo agire per ridurre l’inquinamento? Abbiamo tutti notato che durante il lockdown c’è stata una sua effettiva riduzione…
Durante il lockdown, con tutti in casa per due mesi, è chiaro che c’è stato un miglioramento, più pronunciato per quanto riguarda gli ossidi di azoto, che sono più strettamente legati al traffico veicolare, mentre un po’ più scarsa è stata la riduzione delle polveri, perché la maggior parte di esse sono di origine secondaria, non legati a fenomeni di origine locale ma più a fenomeni globali che avvengono nell’atmosfera e provengono anche da lontano (ad aprile, per esempio, ci sono stati incrementi di polveri provenienti dall’area del Caucaso).
Ma se ora si riparte come prima, cioè con l’uso del mezzo privato, l’uso della legna e del pellet (e si parla di milioni di stufe a pellet anche se, fortunatamente, non funzionanti fino al prossimo inverno),e si riprende la produzione industriale con l’idea di recuperare il terreno perduto, inevitabilmente si andrà verso una situazione come quella già conosciuta prima della pandemia, caratterizzata da livelli di inquinamento dannosi per la salute. Quello che possiamo fare è continuare incessantemente a dire che l’inquinamento atmosferico produce dei gravi danni alla salute collettiva e rende le persone più suscettibili ad eventi come quelli di una epidemia o di una pandemia. Quindi ci sono tante buone ragioni per diminuire l’inquinamento, ma questa società non mi sembra pronta per questo passaggio, perché ha ancora troppo da introiettare e da metabolizzare rispetto a quello che è successo, e capire che non è successo a caso. Questa pandemia, che non è finita e ci accompagnerà per i prossimi mesi, speriamo non anni, è venuta da un’alterazione complessiva degli ecosistemi, e ogni persona si deve sentire impegnata, intanto, a capire cosa sta succedendo e ad approfondire.
Si tratta poi di trasmettere alcuni messaggi al mondo della politica e più diffusamente all’interno della società far crescere la consapevolezza che a riguardo dei cambiamenti climatici si sta giungendo a un punto di non ritorno.
Purtroppo il Covid-19 fino ad ora ha posto drammatici problemi sanitari, ma penso che porrà problemi enormi dal punto di vista sociale, con un aumento delle differenze e delle disuguaglianze per motivi di tipo economico e anche ambientale: quindi, bisognerà ancora di più lavorare per fare advocacy sui rischi del basare tutto sulla crescita quantitativa per favorire processi di economia circolare e crescita sostenibile. Dall’esperienza recente, seppure dura, abbiamo anche imparato a ottimizzare tempi e consumi, a lavorare a distanza e risparmiare risorse, a riflettere e discutere sui valori più che sui prodotti, sui limiti della mercificazione di beni materiali e immateriali.