Il riduzionismo ci salverà (dalla minaccia dei replicanti)

Appena supero la porta scorrevole degli arrivi, mi trovo davanti una calca di persone che guardano verso di me. Scorro velocemente i loro volti, ci sono almeno tre o quattro uomini in giacca e cravatta che reggono un cartello con il nome di qualche Mr giapponese o tedesco, ci sono bambini che aspettano trepidanti il loro papà o la loro mamma, genitori che aspettano i figli, o parenti che vengono da lontano. Poi, in pochi decimi di secondo, intercetto lo sguardo del mio fidanzato, l’immagine del suo volto è corsa dalla retina, alla regione occipitale, fino alle aree temporali del mio cervello. Lo riconosco, è lui, gli corro incontro sorridendo.

Fatta eccezione per l’ultima parte, quella emotiva, questo compito di riconoscimento oggi potrebbe farlo come me, forse meglio di me, un computer. Anzi, una rete neurale.

Le reti neurali in grado di operare il riconoscimento facciale sono ormai largamente diffuse negli strumenti di uso quotidiano, dai telefonini, ai social, ai sistemi di sicurezza. È uno dei molti esempi di intelligenza artificiale che ha superato la barriera dei libri di testo e dei film di fantascienza, per entrare a far parte della nostra vita reale, umana.

Nel caso delle reti neurali,  come succede molto spesso nelle innovazioni tecnologiche, ci si è ispirati a quello che è il reale funzionamento del nostro cervello: una successione di impulsi che avanzano in una rete complessa, ma finita, elaborando gli input sensoriali in output cognitivi o motori. Quando sono stati teorizzati i primi abbozzi di intelligenza artificiale, ancora non era stato riconosciuta la complessità di trasmissione delle informazioni all’interno del nostro organo pensante. La rete neurale è stata modellizzata partendo dall’idea più semplice e meccanicistica di funzionamento del cervello: la sola trasmissione di potenziali d’azione, quegli impulsi elettrici che si ripetono tra un neurone e l’altro con frequenze variabili, come le linee di un codice a barre. Eppure la rete neurale, nello specifico compito, sembra replicare alla perfezione un soggetto umano, soddisfando quindi il test di Turing.

Parcellizzando gli obiettivi, oggi le macchine riescono a eguagliare o persino superare le capacità della mente umana. Ma se è vero che la somma non fa il totale, non esisterà mai una rete neurale abbastanza grande da replicare quella del nostro cervello. Semplicemente perchè il nostro cervello non è – solo – una rete neurale. Quelli complessi siamo noi. I nostri strumenti non serve che lo siano, forse dobbiamo augurarci che non lo siano mai.

Temiamo che le macchine evolvano, ma intanto siamo noi ad evolvere. José M. Carmena, un ricercatore di Berkley in California, studia come le interfacce uomo-macchina modificano il cervello di chi le utilizza. L’imprevedibilità di una rete neurale non sta negli strati nascosti che mutano in modo non controllato dal programmatore, ma nelle strategie evolutive che il nostro cervello mette in atto quando si interfaccia alle nuove tecnologie. Possiamo controllare la semplificazione riduzionista delle macchine, ma non la complessità del nostro Io, in continuo divenire. Se questa complessità sarà un giorno una minaccia più grave degli eserciti di replicanti ribelli, ce lo diranno i film di fantascienza.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay.

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