Nei primi giorni del lockdown sono state molte le immagini, diffuse soprattutto in rete, che hanno cercato di paragonare l’“#iorestoacasa” ad altri momenti storici. Tutti abbiamo qualche conoscenza indiretta delle grandi epidemie che hanno colpito il nostro pianeta. Facciamo i vaccini da quando siamo neonati, impariamo cosa sono i lazzaretti leggendo il Manzoni, ci ammaliamo e ci curiamo con gli antibiotici, o “aspettando che passi”. Conviviamo quindi dalla nostra nascita con la coscienza (o subcoscienza) che le malattie siano parte integrante della nostra vita, senza chiederci continuamente se questa possa variare all’improvviso. Certamente non per tutti, non nell’arco di qualche mese. Non così. Ma è successo, ed è straordinario rendersi conto del fatto che, in realtà, questo sia registrabile come un evento eccezionale solo se restringiamo la nostra scala temporale.
Se viaggiamo nel tempo, scopriamo che situazioni simili si sono verificate già decenni, secoli, millenni or sono.
L’Italia non è certo rimasta indenne, nel passato, alle malattie che hanno devastato il pianeta: anzi, ricordiamo che la “peste nera” del XIV secolo ha fatto il suo ritorno in Europa proprio a bordo delle navi genovesi. Ma questa non è che una delle tante epidemie che hanno piegato l’Italia e l’Europa.
Questi mali sono dilagati nelle città, ma anche nei paesini più sperduti. I grandi centri abitati sono una fonte di propagazione incredibile e ci aspettiamo che, nel 2020 in un mondo globalizzato, virus come il Covid siano liberi di muoversi su auto, treni, aerei. Eppure, nonostante il differente quadro tecnologico-sociale rispetto a oggi, le epidemie viaggiano da secoli, millenni. Con tempi e modalità diverse, neanche allora restavano circoscritte a lungo. E se oggi la malattia la portano, inconsapevolmente, lavoratori e chiunque altro, allora le figure incriminate erano principalmente quattro: mercanti, colonizzatori, soldati e forestieri.
Il “furèst” in dialetto trentino è proprio il forestiero, lo straniero: ed è in Trentino che abbiamo straordinarie testimonianze delle epidemie di peste (prima, fra il 1348 e il 1636) e colera (poi, nel 1836 e 1855) del passato. Alberto Folgheraiter, ex giornalista della sede Rai di Trento, autore di vari
volumi, fra le sue opere annovera “I dannati della peste – tre secoli di stragi nel Trentino” e “La collera di Dio. Storia delle epidemie di colera nell’Ottocento trentino”.
Nei suoi saggi a carattere storico propone fotografie, documenti, resoconti e banche dati, restituendo un quadro completo di ciò che poteva significare, a livello sociale, un’epidemia d’altri tempi. Per poter confrontare quegli eventi con quelli di oggi le differenze sono tante, troppe.
Impossibile però, fra le righe dei racconti, non ritrovare anche qualche tratto in comune con quello che abbiamo sperimentato col virus SARS-CoV-2.
Dottor Folgheraiter, partiamo dalle basi. Ci sono grandi differenze fra le varie epidemie che hanno interessato nel corso dei secoli il nostro Paese. Anzitutto, non tutte sono state causate da un virus come il SARS-CoV-9. Quando parliamo della peste e del colera, di cosa stiamo parlando, dal punto di vista biologico?
Ci sono contagi di due tipi: uno batterico, l’altro virale. Oggi i contagi di tipo batterico, come la peste o il colera, si combattono con gli antibiotici. I quali sono inutili con le pandemie virali per le quali servono i vaccini e il problema del Covid-19 è che un vaccino ancora non c’è. Non c’è perché si è presentato improvvisamente, sconosciuto agli scienziati prima che ai medici del territorio.
Frutto di un trasferimento infettivo dagli animali agli umani come molto spesso accade per le epidemie: siano batteriche o virali. Ma non c’erano cure nemmeno al tempo delle pestilenze medievali. Allora, tra l’altro, non si conosceva nemmeno l’origine di quel male che sterminava la popolazione. Per cui il terrore che attraversava le contrade era maggiore dell’incertezza che ha caratterizzato i mesi di “confinamento” subiti da marzo a maggio del 2020.
Diverse epidemie di peste e colera hanno colpito il Trentino: nei suoi libri lei ne parla in modo dettagliato, includendo documenti storici e testimonianze. In particolare, colpisce un fattore: l’incertezza che regna fra la popolazione (in tutte le classi sociali). In entrambi i casi, il modo in cui queste malattie vengono riconosciute e trattate ha qualche caratteristica in comune col modo in cui è stato trattato il Covid-19. Ci sono analogie (e differenze) sia nei metodi preventivi che nei trattamenti. Ci può fare qualche esempio?
La storia dell’umanità è fatta di contagi e questa terra non ha certo potuto vantare autonomie di sorta. La peste non fu soltanto la “Yersinia pestis”, il contagio causato dal batterio scoperto nella seconda metà dell’Ottocento. Era chiamata così ogni infezione che non aveva apparenti cause visibili. Ciò che si poteva toccare con mano, che causava malformazioni o danni permanenti al corpo umano, era chiamata “lebbra”. Il canonico di Trento Giovanni da Parma, nella sua “Cronaca” della peste del 1348 racconta che ci fu una mortalità di cinque specie. I bubboni della peste, naturalmente, ma anche lo “sputo di sangue” che altro non fu che la tubercolosi. E anche allora, per limitare i contagi, si capì che la prima profilassi era data dal “distanziamento sociale” e che i contagiati andavano rinchiusi nei “Lazzaretti” e che il passaggio delle persone da un luogo all’altra doveva essere impedito. Furono alzati “restelli”, sbarramenti sulle strade, e furono messi a guardia uomini giorno e notte. Chi transitava da un luogo all’altro doveva essere munito di “patente di sanità”. Era un foglietto con su scritto: “Si parte da…. , luoco libero da mal contagioso per l’Iddio Gratia e per l’intercessor Santo Rocho, per andare a …”. Anche in tempi di Covid-19 si deve avere una “giustificazione” per gli spostamenti. Nulla di nuovo sotto il sole dei contagi. Il fatto è che in mancanza di indicazioni e nell’incertezza della vita, si attribuivano le epidemie alla “vendetta di Dio” per “i peccati dell’umanità.
L’evoluzione della scienza nei secoli ci ha aiutato molto per quanto riguarda il virus SARS-CoV-2.
In pochi mesi si sono capite le principali modalità di contagio, come si è originato e come ridurre il rischio di venire infettati. Non si può dire lo stesso per alcune epidemie passate: a cosa veniva attribuita la nascita di un male diffuso e quali erano le difficoltà nel gestire i contagi, quando parliamo di peste e colera?
La peste e il colera sono presenti anche oggi, allo stato endemico, in alcune aree del sud del mondo. Si manifestano con picchi improvvisi in presenza di terremoti, carestie, guerre. Da 150 anni si sa che la peste è causata da una pulce che prolifica sulla pelliccia dei topi di fogna, il rattus rattus. Quando a causa di sconvolgimenti del clima o di terremoti o carestie i topi (le “pantegane”) escono dalle fognature e muoiono, le pulci saltano sull’uomo. E ne succhiano il sangue infettando l’organismo. Il colera è figlio, come la peste, della sporcizia e della miseria. Si sviluppa nell’acqua e con l’acqua è trasmesso all’uomo. Il “bacillo virgola” provoca la distruzione di una membrana dell’intestino, vomito, dissenteria e perdita di potassio. Nel 1865 si è scoperto che bastava bollire l’acqua e renderla potabile per sconfiggere il colera. Oggi si consiglia di lavarsi le mani in continuazione per contrastare il virus della Covid-19. Ma le due infezioni sono diverse anche se la sporcizia fa da terreno di coltura.
Quanto alla gestione dei contagi medievali e delle pandemie di colera dell’Ottocento: attribuita la causa all’ira degli Dei (dall’Egitto alla Grecia di Tucidide), alla vendetta di Dio (nel mondo romano e cristiano della “peste di Giustiniano”), si è continuato a dire che tutto partiva dalla condotta degli umani. Fino al XIX secolo quando la scienza illuministica cominciò a cercare a trovare le cause di quegli stermini ciclici. Il medico inglese Jenner scoprì nelle pustole sulle mammelle delle vacche il vaccino contro il vaiolo; il tedesco Koch scoprì il bacillo (che porta il suo nome) della tubercolosi e pure quello del colera (anche se l’italiano Pacini ci era arrivato qualche anno prima).
La paura ha generato non pochi problemi: cosa ci può dire sui cosiddetti untori? Come è cambiato questo termine nel corso delle epidemie e quali persecuzioni ne sono scaturite?
Per Covid-19 si è subito cercata l’origine e si sono additati come “untori” i cinesi. Naturalmente si è parlato di esperimenti di guerra batteriologica, di un virus sfuggito da un laboratorio, ecc. Fin dall’antichità si è sempre cercato un capro espiatorio su cui scaricare le colpe di contagi misteriosi.
Gli ebrei, deicidi, assassini di Dio, furono il bersaglio preferito. La caccia all’untore si è sempre accompagnata alla caccia al diverso, nella convinzione che perseguitare l’altro avrebbe placato l’ira della divinità e fermato la diffusione del contagio.
Di fronte a questo virus, diverse sono state le modalità di trattamento proposte a livello globale, alcune prive di qualsiasi fondamento scientifico. Questo avvenne anche per le epidemie passate, e spesso le persone venivano sottoposte a tali terapie. Quale, fra queste, è la cura che ha trovato più curiosa?
Quando si brancola nel buio anche un fiammifero può essere un faro. Nei grandi contagi di peste, sifilide, tubercolosi, vaiolo, ecc. le cure empiriche e i ciarlatani andarono a nozze. Chi era ricco lasciava i propri beni a chiese e conventi (mai alla povera gente) convinto di pagarsi il passaporto per il Paradiso. Chi era povero e cencioso moriva come un cane ed era lasciato marcire lungo la strada. Per la cura si faceva ricorso a maghi e fattucchiere, al sapere popolare, alle erbe (talune curative, come la corteccia del salice da cui fu poi ricavato l’acido acetilsalicilico, cioè la comune aspirina). Nel medioevo presero piede gli “elettuari”, con ricette strampalate: corno di Unicorno polverizzato, pietre preziose sminuzzate, uova levate direttamente dall’orifizio della gallina e collocate su un piattino nella camera del contagiato perché attiravano, a dire dei ciarlatani, il veleno. Virus, in latino vuol dire proprio veleno.
I salassi e le mignatte (le sanguisughe) erano la cura principale suggerita. Debilitavano il sano, uccidevano l’ammalato. Unzioni, benedizioni, orazioni e tutto quanto legato alla religione e alla tradizione fecero da corollario ai tentativi di cura. Le processioni e le devozioni, anziché sanificare l’umanità diffusero i contagi. Allora come ora.
Oggi la medicina e la pancia piena di chi vive nella parte opulenta del pianeta, fanno molto. Ma non possono tutto. Ecco, se una lezione può venire all’umanità da questa pandemia è che non servono le bombe atomiche e le guerre per uccidere gli umani. Basta un virus invisibile, veicolato da un pipistrello per riportare il pianeta alla ragione. Il paradosso è che, proprio in Africa dove la miseria e l’indigenza sono sovrane, il virus sembra attecchire meno. Forse perché il 75% della popolazione è fatto di giovani e molti bambini muoiono ancora entro il primo anno di vita. Chi sopravvive ha già gli anticorpi anche contro malattie a noi sconosciute.
E poi, non dimentichiamolo: le epidemie e i contagi sono il fenomeno che emerge nei momenti di crisi dell’umanità. La sovrappopolazione è la minaccia stessa alla sopravvivenza del pianeta. Siamo troppi e diventiamo troppo vecchi. E ogni tanto un animale si incarica di ricordarcelo.