Secondo Lawrence Summers, ex Rettore di Harvard, esistono differenze innate tra uomini e donne nelle abilità matematiche. Differenze che rendono gli uomini più adatti agli studi di questo tipo. A Summers queste affermazioni costarono il posto, qualche anno fa, tuttavia portarono all’attenzione una questione di grande interesse. Donne e uomini, oggi, nel mondo della scienza: si parte alla pari oppure la differenza di genere diventa un ostacolo nel mondo della ricerca? E donne e uomini hanno lo stesso approccio alla ricerca scientifica?
Qualche numero può aiutare a definire i termini della questione. Negli Stati Uniti per esempio, il 79% dei professori universitari di scienze sono uomini, nonostante uomini e donne vincano approssimativamente lo stesso numero di dottorati, dato che fa presupporre che abbiano la stessa preparazione accademica. Inoltre le donne guadagnano appena l’82% dei colleghi.
L’European Research Council qualche mese fa attribuiva 312 ERC Consolidator Grants, fondi di ricerca, per una cifra di 575 milioni di euro di finanziamento. La maggioranza dei Grant sono andati al genere maschile. Su quasi 3.700 domande totali presentate, siamo però fieri di dire che 46 fondi sono andati a ricercatori italiani, dei quali 14 donne contro 32 uomini, con una media femminile leggermente più alta rispetto alla media degli altri Paesi assegnatari dei premi. Peccato che 23 di quei 46 scienziati vincitori, uomini o donne che siano, portino i loro fondi di ricerca fuori dall’Italia, ma questo è un altro discorso (per approfondire, http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/cristina-da-rold/erc-grants-fotografia-dellitalia-negli-ultimi-5-anni/gennaio e www.roars.it/online/splendori-e-miserie-della-scienza-italiana).
In generale, nel nostro Paese le donne faticano a ritagliarsi un ruolo ai vertici delle istituzioni di ricerca, delle accademie e delle università. Tra i neolaureati in materie scientifiche guadagnano in media il 10% in meno dei colleghi uomini; i professori ordinari di sesso femminile sono in numero sensibilmente minore rispetto a quelli di sesso maschile. Per esempio, nelle facoltà di ingegneria le donne che ricoprono il ruolo di professore ordinario sono appena l’8,4% del totale (dati dal rapporto «Donne e Scienza – L’Italia e il contesto internazionale», curato dal Centro di Ricerca Observa, 2009).
Nonostante il contesto e questi dati, non proprio incoraggianti, viviamo un momento nel quale, però, le donne che lavorano nella scienza paiono ottenere successi e visibilità anche al di fuori dei circuiti specialistici.
Sono diverse le figure di spicco nel panorama scientifico italiano che, da donne (o forse dovremmo dire, pur essendo di genere femminile), sono riuscite a raggiungere il successo. Qualche esempio?
Fabiola Gianotti, 53 anni, fisica, guida il gruppo che al Cern di Ginevra ha trovato il bosone di Higgs e inserita dal Time tra le cinque persone più importanti del 2012.
Samantha Cristoforetti, 37 anni, milanese, prima donna astronauta italiana, nel novembre del 2014 partirà a bordo della navicella Soyuz per la stazione spaziale internazionale. Condurrà numerosi esperimenti e passerà sulla navicella sei mesi, con il ruolo di ingegnere di bordo.
Lucia Votano, 62 anni, laurea in fisica, è la prima donna a dirigere i Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Si occupa di coordinare circa mille fisici provenienti da tutto il mondo che lavorano a una ventina di grandi progetti tra i quali anche quello che ha portato a dimostrare, in collaborazione con il Cern, l’esistenza del bosone di Higgs.
Ilaria Capua, 48 anni, responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate dell’Istituto Zooprofilattico delle Venezie, conosciutissima per i suoi studi sui virus influenzali e in particolare sull’aviaria. Ha promosso la campagna internazionale a favore del libero accesso ai dati sulle sequenze genetiche dei virus influenzale, posizione che le ha fruttato il titolo di mente rivoluzionaria da parte di Seed e l’inserimento nella top 50 degli scienziati mondiali.
Potremmo continuare con altri nomi e altri volti. Sembra interessante però concludere citando almeno altre due donne che, per motivi diversi, rappresentano in maniera esemplare la condizione delle donne nella scienza in Italia: Elena Cattaneo ed Elena Conti. Due esperienze differenti, due vite che si spendono equamente al confine tra scienza e società.
La prima, Elena Cattaneo, si laurea in farmacia all’Università di Milano nel 1986 con un lavoro sperimentale presso l’azienda farmaceutica Recordati che la porta a studiare i recettori di membrana e la caratterizzazione del binding molecolare. Dopo un periodo al Dipartimento di Scienze Farmacologiche, la Cattaneo parte per il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, per lavorare con Ronald McKay, pioniere degli studi sulle cellule staminali. Tornata in Italia, nel 1992, tra mille difficoltà e alternando alla vita accademica la vita familiare, nasce infatti la sua prima figlia, Elena Cattaneo sfrutta a pieno l’occasione datale da Rodolfo Paoletti: fonda il suo primo laboratorio di ricerca sulle cellule staminali e le malattie degenerative all’interno del Dipartimento di Scienze Farmacologiche dell’Università degli studi di Milano. A oggi, parlare di staminali e di malattie degenerative significa necessariamente parlare delle ricerche condotte da Elena Cattaneo. Che negli ultimi anni si è spesa molto anche sul versante della divulgazione, esponendosi in prima persona per esempio nella campagna per l’abrogazione di alcuni articoli della legge sulla procreazione assistita e sulla ricerca scientifica su embrioni inutilizzati e congelati. Una vita per la scienza quindi, ma una vita anche di impegno. Forse proprio per questo motivo la Cattaneo è stata recentemente nominata dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, senatrice a vita. È la terza donna (solo la terza!) a essere insignita di tale carica, dopo Camilla Ravera e Rita Levi Montalcini. E si sta spendendo, ampiamente e con forza, per portare la scienza nelle aule della politica e le competenze alla guida delle scelte pubbliche. Una sfida difficile, che le auguriamo di vincere.
L’altra donna italiana di cui andare fieri è la biochimica Elena Conti, 47 anni, che dal 1999 ha un gruppo di ricerca che lavora sui sistemi di controllo per gli acidi ribonucleici, gli RNA. Direttore del Dipartimento di Biologia Strutturale dell’Istituto Max Planck di Biochimica di Monaco di Baviera, vince quest’anno il premio Louis Jeantet per la medicina, insieme a Denis Le Bihan. Dopo i primi 18 anni della sua vita passati a Varese, Elena studia Chimica all’Università di Pavia, vola a Londra all’Imperial College di Scienza, Tecnologia e Medicina per il dottorato di ricerca in Scienze Fisiche, poi prende il post-doc a New York alla Rockfeller. Rientra in Europa, ma non in Italia, nel 1999, fondando un gruppo di ricerca a Heidelberg, presso il Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (EMBL). Riceve negli anni diversi riconoscimenti alla carriera e nel 2010 l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. In Italia non si è sentito molto parlare di lei, se non per la vittoria del prestigioso premio: la scienziata riceve la somma di 580mila euro circa per continuare la ricerca sulla comprensione dei meccanismi molecolari che controllano la qualità, il trasporto e la degradazione dell’RNA. Ma che cosa hanno scoperto Elena Conti e il suo team? Sono riusciti, per la prima volta, a visualizzare e decifrare le strutture atomiche di complessi di proteine nel momento in cui individuano e marcano gli acidi ribonucleici, gli RNA (exon junction complex) e anche mentre li distruggono (exosoma). Hanno anche scoperto che i meccanismi dell’exosoma si sono conservati nel corso dell’evoluzione e che i principi di questa macchina molecolare, simili ai meccanismi che usa il protosoma, la macchina molecolare che distrugge le proteine difettose, si sono conservati in tutte le forme di vita.
Sara Magnani e Valeria Ratti