Breve storia della Chemofobia
Navigando su Internet potreste trovare appelli e petizioni per la messa al bando di una misteriosa e apparentemente pericolosa sostanza chimica, il monossido di diidrogeno.
Questa sostanza, secondo gli autori delle petizioni, sarebbe un potente solvente in grado persino di intaccare alcuni metalli, oltre a trovare impiego nelle centrali nucleari. Sarebbe addirittura responsabile di migliaia di morti in tutto il mondo ogni anno. Eppure, anche se la sua pericolosità è da tempo “conclamata”, le multinazionali e le grandi industrie alimentari la inseriscono in grande quantità nei loro prodotti, anche in quelli destinati ai bambini.
Se questa descrizione vi ha in qualche modo spaventato, sappiate che non ne avete alcun motivo: il monossido di diidrogeno non è altro che il nome chimico dell’acqua!
Queste petizioni fanno parte di una nota burla, nata negli Stati Uniti durante gli anni ’90 e diffusa attraverso la rete, che ne ha amplificato la diffusione, ottenendo nel corso degli anni moltissimi sostenitori, ignari di aver firmato e sostenuto una petizione volta a bandire una sostanza vitale per l’uomo e l’ambiente.
Il successo e l’inganno di questa beffa si basano su due principali fattori: il primo è l’uso ingannevole del linguaggio scientifico, a partire dall’uso della nomenclatura propria della chimica. In secondo luogo, si sfrutta il diffuso timore per ciò che è chimico ed artificiale che è oggi particolarmente diffuso nella nostra società.
Non c’è alcun dubbio, infatti, che nel linguaggio comune il lessico legato alla chimica abbia assunto ormai un significato negativo, come qualcosa di sintetico o artificiale, se non addirittura dannoso.
Questo timore è talmente comune che si è arrivati a coniare il termine “Chemofobia” per descrivere la diffidenza, spesso irrazionale e infondata, verso tutto ciò che viene percepito come estraneo alla natura e quindi dannoso.
Sono molte le aziende, soprattutto nel campo alimentare o cosmetico, che promuovono i loro prodotti con slogan che ne esaltano il loro essere naturali, senza OGM o additivi artificiali di qualunque tipo, fino a dichiarare che i loro prodotti non contengono alcun tipo di sostanza chimica in assoluto.
Chimico e Biologico
Conseguenza di questo timore diffuso è la crescente popolarità di metodi di agricoltura come il biologico e il biodinamico, o di medicina alternativa, di cui la medicina omeopatica è l’esempio più eclatante.
L’agricoltura biologica è una pratica nata negli anni 50’-60’ e consiste nel fondare la produzione agricola sui prodotti di origine naturale, rifiutando ogni tipo di sostanza di sintesi. Attualmente sono in corso grandi dibattiti se l’agricoltura biologica porti dei vantaggi in termini di mantenimento della biodiversità, sostenibilità ambientale o qualità dei prodotti.
Altra pratica è l’agricoltura biodinamica, una versione più radicale dell’agricoltura biologica nata negli anni 30’ e basata sulle lezioni e sulle teorie del filosofo ed esoterista tedesco Rudolf Steiner. Oltre alle stesse procedure dell’agricoltura biologica, il biodinamico fa anche uso di pratiche di natura esoterica, legata alle fasi lunari e alle presunte “energie” della terra e della natura.
A novembre dello scorso anno fece molto scalpore l’organizzazione da parte dell’università di Firenze di un Workshop dove questa pratica ricopriva una posizione centrale: motivo dello scandalo fu l’accusa all’università di aprirsi ad una pratica magica e pseudoscientifica come è l’agricoltura biodinamica.
L’omeopatia, invece, è la più diffusa forma di medicina alternativa, fondata verso la fine dell’800 dal medico tedesco Samuel Hahnemann e basata su due principi fondamentali. Il primo afferma che il simile cura il simile, ossia che vengono usati nei preparati omeopatici sostanze che producono effetti simili a quelli della malattia che si intende curare. Il secondo principio afferma che tanto più la sostanza verrà diluita, tanto maggiore sarà l’effetto benefico; nei preparati omeopatici queste diluizioni sono talmente spinte che è impossibile trovare anche una sola molecola del principio attivo nel preparato finale.
Quindi non solo l’omeopatia si basa su principi contrari e contraddetti dalla scienza, ma ha anche fallito nei numerosi test clinici a cui è stata sottoposta, ottenendo risultati paragonabili ad un placebo, che consiste semplicemente in acqua e zucchero. L’unico effetto dimostrato che ha questa forma di medicina alternativa è il solo effetto placebo, che si basa sulle aspettative del paziente sul farmaco che sta per ricevere.
A questo punto sorge una domanda: esiste una differenza sostanziale tra un prodotto chimico e uno naturale? Che cosa cambia tra una vitamina contenuta in un frutto e quella (artificiale) presente in un integratore? Proviamo a fornire una risposta partendo da una definizione grezza: la chimica è la scienza che studia le reazioni e trasformazioni che regolano i fenomeni che ci circondano, tra cui la vita stessa.
Paradossalmente, quello che viene considerato il più naturale dei prodotti, come un frutto, è in realtà estremamente “chimico”. Sono necessarie, infatti, innumerevoli reazioni e trasformazioni perché da un piccolo seme si generi una pianta rigogliosa, in grado di nutrirsi trasformando anidride carbonica in ossigeno e di produrre frutti colorati e succosi.
La stessa frutta deve il suo colore, il sapore e le proprietà nutrizionali a sostanze che effettivamente sono chimiche e il cui nome potrebbe suonare sinistro: acido ascorbico fa più paura di vitamina C, vero? Soprattutto le vitamine, che sono molecole relativamente semplici, hanno la stessa forma e le stessa caratteristiche, a prescindere dal processo che le ha generate. Non esiste alcun vantaggio, quindi, nell’assumere un integratore basato su vitamine “naturali”.
Possiamo dunque concludere che se anche esistono sostanze innocue e sostanze pericolose, questo non ha nulla a che vedere con la loro origine naturalo o sintetica. Quindi la cosa si chiude qui? Basta infatti far passare questi pochi e semplici concetti per indurre il grande pubblico a smetterebbe di temere la chimica? A non abbracciare le pseudoscienze e ad accettare i risultati conseguiti dalla scienza?
È sufficiente che gli scienziati e i divulgatori dimostrino le evidenze al grande pubblico perché ogni ombra di pseudoscienza si sciolga come neve al sole? Purtroppo la divulgazione scientifica non funziona in questo modo. La diffidenza del pubblico ha profonde radici storiche.
Chimica ed Ecologia
Nel 1962 la scrittrice e biologa statunitense Rachel Carson pubblicò “La primavera silenziosa” in cui denunciava i danni causati dal DDT e da altri pesticidi di origine sintetica e del loro uso massiccio e sconsiderato sulla natura e sull’ambiente.
Il titolo del libro si riferisce ai danni causati dall’accumulo dei fitofarmaci lungo la catena alimentare: la sostanza passa dagli insetti ad organismi sempre più in alto nella catena alimentare, arrivando a concentrarsi in gran quantità nei predatori e infine nell’uomo stesso.
Secondo l’autrice, se non si fosse posto un freno all’uso dei DDT e di altri pesticidi, questi avrebbero risalito la catena alimentare fino ad arrivare agli uccelli, con una conseguente diminuzione della loro popolazione, e la primavera, orfana del loro canto, sarebbe diventata silenziosa.
Fu anche da queste premesse che negli anni ’60 nacque il movimento ecologista che spinse molti governi, per tutelare l’ambiente e la salute umana, a porre un limite all’uso di tali prodotti e a prestare maggiore attenzione all’introduzione di nuovi pesticidi.
Per quanto l’uso di pesticidi di sintesi sia stato fondamentale per eradicare alcune malattie, come la malaria, il loro abuso causò un grave danno all’ambiente.
Questo problema contribuì alla nascita di una diffidenza tout court nei confronti della scienza e dei suoi progressi.
I primi tentativi per contrastare tale diffidenza inizialmente produssero risultati inefficaci e addirittura opposti alle aspettative, arrivando addirittura ad allargare il divario tra il pubblico e la scienza.
Questo effetto fu causato da una visione estremamente paternalistica del problema: si pensava che lo scetticismo del pubblico nei confronti del progresso fosse causato dalla sua ignoranza in materia scientifica. Si riteneva quindi che sarebbe bastato colmare queste lacune perché il pubblico tornasse a fidarsi: la conoscenza dei temi scientifici ne avrebbe comportato anche l’accettazione.
Oggi il paradigma alla base della comunicazione scientifica è cambiato radicalmente ed è molto più aperto al dialogo e alla condivisione con il pubblico.
In particolare, lo scopo dei divulgatori scientifici non è più quello di insegnare, magari semplificando, una serie di nozioni e di conoscenze, ma quello di trasmettere il vero vantaggio della scienza: il suo metodo.
Lo scopo è oggi quello di dotare il pubblico degli strumenti atti ad affrontare correttamente temi complessi e a farsi un’opinione su di essi, permettendo a molti di diventare cittadini consapevoli di una società in cui la scienza ricopre un ruolo fondamentale.
Fonti:
https://www.greenreport.it/news/comunicazione/monossido-di-diidrogeno-shock-in-italia-torna-la-paura-del-killer-invisibile/
https://blogs.scientificamerican.com/the-curious-wavefunction/how-to-recognize-and-talk-to-a-chemophobe/
https://www.scienzainrete.it/articolo/superare-chemofobia/valentina-domenici/2017-10-12
Sociologia della scienza, A. Cerroni, Z. Simonella, Carocci editore