Recensione della mostra Robot: the Human Project – Mudec, Milano, Maggio – Agosto 2021
Tu sai di non esserlo, ma cosa rende tale un robot? È un insieme di fili, batterie e pezzi di ferro? o un insieme di algoritmi che compongono un programma informatico? La parola robot racchiude più significati e storia di quanto oggi noi, abituati ad usarla, possiamo immaginare.
Robot. The human Project, la mostra presentata al MUDEC di Milano punta proprio ad allargare l’occhio del visitatore a nuove, ma anche vecchie e antiche, frontiere di ciò che è possibile definire come robot. Il percorso espositivo è realizzato in collaborazione con l’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e l’IIT di Genova e racconta, sala dopo sola, la relazione tra l’essere umano e tutte le sfaccettature storiche del suo doppio artificiale, anche quelle più inaspettate. Racconta inoltre la storia dello sviluppo tecnologico che ha portato alla creazione dei più moderni Cobot, i robot più avanzati, in grado anche di riconoscere le emozioni.
Ogni innovazione si intreccia sempre anche al tessuto storico e sociale dell’epoca in cui è stata creata, per questo i rimandi continui a letteratura, cinema e storia presenti nella mostra vengono percepiti come essenziali per capire la relazione tra la storia dei robot e la storia dell’uomo. Wall –E, Pinocchio, Star Wars sono infatti solo alcune delle immagini della fantascienza scelte e usate nel percorso espositivo per raccontare questa costante dialogo tra sviluppo scientifico e sviluppo umano.
C’è un filo più lineare di quanto pensiamo che collega i primi congegni meccanici della Grecia antica e i nuovi Walkman, umanoidi di 100 Kg alti 1,85 metri, pensati per intervenire in scenari d’emergenza come incendi, terremoti o disastri nucleari.
Il primo automa della storia risale addirittura al III secolo a. C e si trova in Pneumatica, uno dei trattati di meccanica dello scienziato greco Filone di Bisanzio. Tra i progetti di macchine idrauliche e ruote meccaniche compare anche quello per la costruzione di un’ancella automatica in grado di versare il vino al proprio padrone. Più di due mila anni dopo, per definire un’invenzione simile dell’ancella automatica, si sceglierà di utilizzare il temine robot – dal ceco robota, ovvero lavoro servile – per sottolineare come queste invenzioni guidate dal desiderio di risollevare l’uomo da vari compiti, più o meno faticosi, siano destinate ad essere sempre dei suoi sottoposti.
Su questo aspetto si innestano quindi le domande presenti nelle varie sale a cui il visitatore può rispondere sì o no attraverso l’uso di due pulsanti. Ad esempio: è giusto chiedersi se questi robot, progettati e costruiti da noi, debbano essere considerati responsabili delle proprie azioni. Uno schermo alla fine della mostra svela le percentuali di risposte positive e negative per ogni domanda, sia durante il giorno in cui il visitatore ha risposto alle domande, sia dall’inizio della mostra fino a quel giorno. Questo stratagemma risulta essere un efficace metodo di comunicazione di temi e problematiche legati alla robotica e all’intelligenza artificiale. La mostra in questo modo non viene vissuta passivamente, ma il visitatore è stimolato a riflettere su questioni etiche e sociali, che aumentano di profondità e complessità in relazione alle innovazioni tecnologiche presentate sala dopo sala.
Le varie declinazioni sul tema presenti nelle sale spaziano poi da orologi a pendolo con meccanismi molto complessi a marionette animate da leve e ingranaggi, dalle prime protesi cinematiche, nate attorno al 1900 grazie all’ortopedico toscano Giuliano Vanghetti, fino alla moderna bionica. Fino a qui tutto bene, mentre camminiamo negli spazi espositivi nemmeno ci accorgiamo di quanti robot fanno davvero parte della nostra vita, ci stupiamo addirittura di quanti oggetti possono essere inseriti sotto la definizione di robot, che ci appare via via più ricca di quello a cui siamo abituati.
Poi ci troviamo davanti quello che davvero è un robot, quello che la letteratura e la cinematografia hanno messo in scena: il robot nell’immaginario comune moderno è C3PO, l’umanoide dorato di Star Wars. La grande differenza con il robot presente alla mostra però è che questo è stato pensato per l’intrattenimento e non come supporto a diversi lavori come C3PO. O almeno per ora non ha ancora quello scopo. Creato dalla azienda inglese Engineered Arts che si occupa proprio del design e della progettazione di robot umanoidi per parchi scientifici, eventi o cinema, Robothespian è un robot attore, parla 30 lingue e possiede un ampio bagaglio di espressioni e movimenti tale da renderlo un attore molto credibile, forse fin troppo.
Dopo aver visto tutto lo spazio espositivo, è possibile dividere la mostra in due macro sezioni. La prima dominata dallo stupore di oggetti antichi, già innovativi per l’epoca della loro creazione, che hanno il sapore di reperti storici. Superata la sala della bionica si entra nella sezione dei Robot tra noi. Tali oggetti – sempre che sia ancora giusto definirli come tali – possiedono ormai caratteristiche socialmente accettabili che devono spingere una persona a provare un senso di affinità con loro e allo stesso tempo devono trasmettere un’apparenza di prevedibilità nelle loro azioni e nei loro gesti.
I robot infermieri, i robot impiegati come supporto ai clienti di un centro commerciale o di un aeroporto devono essere armoniosi e gentili già nel loro aspetto per generare in chi interagisce con loro un senso di vicinanza e affetto. Alla sicurezza e stupore dato dal riconoscimento di oggetti noti delle prime sale si contrappone infatti lo stupore per gli enormi passi avanti che la robotica ha fatto negli ultimi cinquant’anni e che si possono osservare nelle ultime sale del percorso. Alla meraviglia si accompagna sempre una leggera, ma pervasiva, sensazione di disagio e inquietudine verso qualcosa che riconosciamo allo stesso tempo come troppo simile e troppo diverso a noi. Una volta di fronte a quello che più rispecchia la descrizione di robot a cui siamo abituati dalla letteratura e dal cinema, possiamo sentirci respinti dalla sua troppa somiglianza con le caratteristiche umane.
Se capita questo, siete nel bel mezzo della Uncanny Valley, la valle perturbante. Il termine nasce circa nel 1970 dopo la pubblicazione di uno studio di Masahiro Mori, scienziato giapponese, e indica le varie reazioni emotive che gli essere umani provano nella relazione con entità non umane. La sensazione di “uncanny” (perturbante) compare all’improvviso, dopo un aumento di familiarità legata alla somiglianza con l’umano. Il design dunque deve essere realistico, ma non tanto da far precipitare nella uncanny valley, il che si può ottenere ad esempio mantenendo elementi chiaramente astratti all’interno di una forte somiglianza con l’umano. Lo schermo alla fine della mostra, con tutti i risultati alle domande su questioni etiche e sociale, sembra anche un modo per non far sentire da solo il visitatore attratto, ma anche in parte respinto da queste nuove frontiere della tecnologia.
Il percorso in ultima analisi non si struttura solo come sviluppo storico dei progressi della robotica, delle potenzialità che queste scoperte avranno nel futuro e dei vantaggi che hanno portato nel passato. Chi cammina tra le sale viene anche chiamato a rispondere a domande sotto forma di giochi interattivi, domande che racchiudono un diverso percorso espositivo, quello che si snoda nelle più attuali problematiche che segnano la relazione tra l’essere umano e l’essere macchina: la possibilità o meno di aumentare le capacità cognitive con l’uso di innesti artificiali, la responsabilità e il diritto delle macchine, fino addirittura alla possibilità di innamorarsi di un robot. Dalla mostra ci si porta a casa quindi lo stupore per la scoperta delle radici profonde su cui poggia la storia dei robot, ma si comprende anche che l’attività umana non può essere valutata solo come l’esecuzione di compiti e il raggiungimento di obiettivi, e che quindi per quanto futuristici, innovativi, e leggermente disturbanti, i nostri doppi meccanici rimangono ancora un progetto tutto umano.