Raccontare la crisi climatica

Gli indizi nel passato

Testimoni e narratori attivi del cambiamento climatico. Ecco cosa si sono ritrovati a essere, forse inconsapevolmente, molti pittori e letterati nel corso della storia. Molti quadri, databili tra il XV e il XIX secolo, presentano infatti nei loro paesaggi indizi di questi cambiamenti. Uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica Atmospheric Chemistry and Physics, e condotto da Christos Zerefos [1] [2], professore di fisica atmosferica presso l’Accademia di Atene, ha analizzato 550 quadri di 181 artisti per comprendere la relazione tra eruzioni vulcaniche e cambiamenti climatici. Grazie a queste pitture paesaggistiche, dove il sole al tramonto è protagonista assoluto, gli studiosi sono stati in grado di ottenere importanti informazioni riguardanti la concentrazione delle particelle atmosferiche. Artisti come Turner non riportavano su tela semplicemente cromatismi mozzafiato, ma testimonianze attendibili di quello che stava accadendo sotto i loro occhi. Siamo nell’aprile del 1815 quando si ha l’eruzione del vulcano Tambora, situato in una delle isole dell’arcipelago indonesiano. Gli effetti di questa eruzione non saranno solamente locali ma soprattutto globali, dall’America settentrionale fino all’Europa. Cielo rosso e luna crescente di Turner e Donna davanti al tramonto di Friedrich sono solo alcuni dei quadri dove sono visibili i tramonti e i crepuscoli spettacolari dati dagli aerosol di gas e ceneri dell’eruzione. Lo stesso studio, prima citato, mostra come il rapporto rosso-verde dei tramonti di Turner sia più alto in concomitanza delle eruzioni vulcaniche. In questi anni, mentre Turner riportava su tela gli effetti dell’eruzione del vulcano Tambora con tramonti inediti dei paesaggi scozzesi, poeti e scrittori ugualmente ne lasciavano traccia nelle pagine delle loro opere, indizi di quello che verrà ricordato come l’anno senza estate con gelate inaspettate e diminuzioni di temperatura.

Ho fatto un sogno non soltanto sogno.
Il sole splendente s’era spento e le stelle
vagavano al buio nello spazio eterno
senza raggio né direzione; la terra gelata
girava cieca abbuiandosi nell’aria illune;
venne mattino, passò, tornò senza recare
giorno, e gli uomini, presi dal terrore
di tanta desolazione, dimenticarono
le loro passioni, i cuori agghiacciarono
pregando in se stessi per avere luce.

Così scriveva il poeta Lord Byron nel suo componimento Darkness [3], facendo riferimento anche alla paura della fine del mondo diffusasi tra la popolazione di fronte a un clima mutato e inaspettato. La stessa Mary Shelley riporta gli effetti di quell’infausto anno nell’incipit di Frankenstein [4].

La letteratura ci viene in aiuto

Se i gas e le ceneri proiettati ad alta quota dall’eruzione vulcanica di Tambora, come in tutte le grandi eruzioni vulcaniche, sono rimasti intrappolati nella stratosfera provocando anomalie climatiche e le particelle hanno sedimentato nella realtà come nei quadri di Turner dando una concreta testimonianza ai posteri, che ruolo hanno oggi artisti e scrittori nel raccontare i cambiamenti climatici e quello che sta accadendo attorno a noi ora? Bruno Arpaia, scrittore, traduttore e autore tra l’altro di Qualcosa, là fuori, romanzo nato dalla sua innata capacità di indagare il reale e dal suo sguardo attento all’urgenza climatica e a quella umanitaria dei migranti climatici [5], sottolinea come sia fondamentale il ruolo di artisti e narratori di storie, siano esse scritte o cinematografiche. Continua affermando come siano insiti in “noi sapiens una serie di bias, di pregiudizi cognitivi che non ci permettono di affrontare la crisi climatica nella sua interezza. C’è un bias della distanza, sembra infatti che certi avvenimenti debbano sempre succedere agli altri e mai a noi, mentre invece l’Italia è passata in 10 anni da 15-20 eventi estremi a 1650 in un anno”. Ma il vero problema sembra proprio il non collegare questi eventi, ormai sempre più frequenti, con un’emergenza climatica della quale siamo spettatori attivi. “La crisi climatica è quello che Timothy Morton definisce un iperoggetto”, prosegue Arpaia, col quale si trova in accordo l’antropologo, geografo e scrittore Matteo Meschiari che riafferma l’importanza cruciale di artisti, scrittori, persone qualsiasi nel giocare un ruolo cruciale in questa fase di lettura del nuovo immaginario collettivo in cui siamo immersi. Non parla solo di “sensibilizzare le coscienze”, ma proprio di applicarsi con attitudine cognitiva rinnovata all’interpretazione di un macroproblema che riguarda le sorti del pianeta. “La diversità disciplinare, la molteplicità di interessi e punti di vista, sono un ingrediente necessario per avvicinare la complessità. Più nello specifico, scrittori e artisti lavorano con l’immaginario (in senso bachelardiano) e in quanto “professionisti” delle immagini sono forse in grado di vedere cose che allo scienziato, all’economista, al politico sfuggono. L’Antropocene, l’epoca geologica attuale, è anche un oggetto culturale, insomma, e per questo è importante farsi antropologi dell’Antropocene con ogni mezzo culturale possibile”. Anche secondo Amitav Ghosh, nel saggio La grande cecità, “l’Antropocene rappresenta una sfida non solo per le arti e le scienze umane, ma anche per il nostro modo abituale di vedere le cose” [6]. Ghosh sottolinea inoltre come tale sfida nasca dalla complessità del linguaggio tecnico che utilizziamo come lente di ingrandimento sul cambiamento climatico, e proprio il fare luce su tutto questo potrebbe essere la chiave per capire perché la cultura contemporanea trovi così difficile affrontare la questione del cambiamento climatico, che altro non è se non la crisi della cultura e dell’immaginazione stessa. E quindi come superare questi bias cognitivi che non ci permettono di cogliere il problema della crisi climatica in tutta la sua totalità? Arpaia afferma che proprio “le storie possono essere un punto di svolta, perché il raccontarle è un modo per far vivere alle persone gli avvenimenti che stanno già accadendo e che hanno a che fare con la crisi climatica. Le storie hanno il potere di toccare la parte emozionale, cosa che non accade ad esempio con i saggi o con l’utilizzo di grafici, e permettono di superare quei bias, quei pregiudizi cognitivi che ci impediscono di vedere il problema in tutta la sua gravità”. Lo stesso Yuval Noah Harari lo scrive nel saggio 21 lezioni per il XXI secolo, “l’uomo elabora pensieri grazie a storie piuttosto che per mezzo di numeri e grafici” [7]. Meschiari riafferma l’urgenza del convincersi di come il narrare sia una strategia operativa e non solo un passatempo o una forma d’arte o una pratica estetica. “Voglio dire che narrare è quella che Alain Berthoz chiama “vicarianza”, cioè la produzione di scenari immaginati che funzionano come simulazioni cognitive per agire poi nella vita concreta. Oggi abbiamo bisogno di praticare la vicarianza, di esercitare la mente speculativa, di riattivare l’immaginario per gestire meglio le nostre visioni del futuro, che ultimamente sono in crisi o addirittura in frantumi”. È per cercare un senso nelle cose, per trovare una spiegazione che si ha bisogno di una narrazione, afferma Harari, e trovando il proprio ruolo nel dramma cosmico, facendoci partecipi di qualcosa di più grande di noi, diamo un significato a tutte le nostre esperienze e scelte. Ed è proprio su questo che insiste infine Arpaia, “Si pensa ancora alla letteratura come a un’avventura individuale. La letteratura viene definita, dall’800 in avanti come l’avventura di un uomo o di una donna e le sue vicissitudini e invece la letteratura è un qualcosa di collettivo, non parla un IO ma parla un NOI. E deve essere lo stesso modo che dobbiamo utilizzare per affrontare la crisi climatica, dobbiamo uscire dall’immaginario individualizzante, il male di questa società. La svolta è cominciare a pensare in modo collettivo”.

Scienziati e comunicazione della crisi climatica

Climate Outreach, uno dei massimi esperti europei in comunicazione del cambiamento climatico, su richiesta dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico composto da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, ha elaborato nel 2018 un manuale che servisse come strumento a disposizione della comunità scientifica per coinvolgere e sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della crisi climatica. Quando uno scienziato comunica la questione del cambiamento climatico al pubblico, secondo gli esperti del Climate Outreach, dovrebbe tenere presente 6 principi chiave che stanno alla base del manuale citato sopra:

  1. parlare con sicurezza, trasparenza e sincerità, per instaurare un rapporto di fiducia con chi ascolta;
  2. parlare di cose reali ed esperienze comuni, e non di concetti astratti: i numeri del cambiamento climatico sono spesso troppo distanti dall’esperienza quotidiana;
  3. toccare i temi su cui il pubblico è più sensibile e cercare di mettere i fatti scientifici in relazione con i valori morali di chi ci ascolta;
  4. raccontare una storia avvincente, usando una struttura di tipo narrativo e mostrando il volto umano che sta dietro la scienza;
  5. concentrarsi su ciò che si sa e su cui c’è forte consenso scientifico, prima di affrontare ciò che è incerto (pur senza ignorare o nascondere il fatto che l’incertezza è parte integrante della climatologia);
  6. usare una comunicazione visiva di impatto e coinvolgente: immagini che raccontino comportamenti che le persone possono mettere in atto, storie positive, “soluzioni” reali al cambiamento climatico.

Partendo da questi punti chiave, Elisa Palazzi, ricercatrice presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR, ci racconta come sia fondamentale creare un clima di fiducia con il pubblico, non eccedendo nella quantità di informazioni, sia per non sovraccaricare chi ascolta sia per lasciare spazio alla curiosità e alla ricerca personale. Anche “metterci la faccia” e far emergere il proprio lato umano è importante per accorciare la distanza tra scienza e società. “Bisognerebbe davvero riuscire a toccare le corde delle emozioni di chi ascolta, e far capire che la questione climatica non ha a che fare solo con i ghiacci che fondono al polo o in montagna, con i mari che si innalzano, con siccità più frequenti e prolungate o con alluvioni e con tutti gli impatti negativi connessi a queste trasformazioni, dalle migrazioni alle crisi idriche, dalla produzione agricola alla nostra salute”, aggiunge la Palazzi, “ma ha che fare con il futuro che ci immaginiamo per noi e per i nostri figli, con l’armonia del vivere su una Terra in salute, dove gli ecosistemi ci aiutano a stare bene e dove essere felici”.

Anche Giorgio Vacchiano, ricercatore in Gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano, è concorde nel sottolineare come sia fondamentale tener conto delle reazioni psicologiche ed emotive delle persone e come sia invece errato fondare la comunicazione su dati e informazioni. Questo modello, che si chiama “modello del deficit”, ha fatto comprendere infatti come le persone non siano vasi da riempire con numeri, perché la comprensione non passa solo dal cervello e dall’apprendere dei dati.

È giusto infatti coinvolgere la parte emotiva, ma molto spesso lo si fa nel modo sbagliato, suscitando emozioni di repulsione e di negazione. Secondo Vacchiano trasmettendo un senso di allarmismo, si rischia di suscitare un senso di colpa da cui poi chiunque cerca di liberarsi oppure un senso di paura e quindi di negazione del problema. È necessario dare le informazioni corrette e far capire la difficoltà della situazione nella quale ci troviamo, per stimolare un’urgenza nell’azione, ma non lo si può fare solo in negativo. “La comunicazione del cambiamento climatico, soprattutto in Italia, è molto carente anche dal punto di vista delle soluzioni.”, afferma Vacchiano, con il quale si trova in accordo la stessa Palazzi che sottolinea l’importanza di fare leva sulle informazioni positive, parlando di soluzioni concrete e alla portata di tutti, affinché ciascuno si possa sentire motivato a far parte di quella soluzione e non inerme o schiacciato dal problema. “Bisogna attivarsi dal punto di vista politico, economico e sociale per mettere in atto delle soluzioni. Non secondariamente, stimolare le emozioni positive e la voglia di attivarsi per un cambiamento. Sentirsi protagonisti è fondamentale”, sottolinea Vacchiano, “perché se ci si sente inutili e soli, questo può portare solo al disimpegno e alla disillusione. Ognuno di noi fa parte di una comunità, che sia la famiglia, la scuola, la città, il gruppo parrocchiale. Fare leva sull’azione collettiva di questi gruppi evita la disillusione nei confronti della classe dirigente e ci conduce a un’azione collettiva e quindi attiva anche un senso di appartenenza, di comunità, tutte cose positive che devono essere attivate se vogliamo che qualcosa accada”.

Un altro aspetto da considerare è che solo se colpiti in prima persona sentiamo l’urgenza di comprendere e capire realmente un evento. E questo avviene anche con i fenomeni legati ai cambiamenti climatici. “Bisogna lavorare sull’empatia, deve essere costruita, suscitata e questo è possibile solo grazie alle storie. Raccontando storie, non raccontando dati. Le storie hanno, per ognuno di noi, una potenza veramente inedita, è la cosa più potente che abbiamo”, continua Vacchiano, “Quindi è importantissimo il ruolo dello storytelling, perché raccontare storie di persone il più possibile vicine a chi stiamo parlando, storie che di volta in volta saranno differenti e che dovranno essere calibrate sulle persone che abbiamo davanti, permette di comprende il problema, ma allo stesso modo rende consapevoli di come in tutte le storie ci sia anche una soluzione. Le storie sono fatte di una crisi iniziale e poi di una soluzione finale”.

Ma secondo Isabella Pratesi, direttrice del programma di conservazione del WWF Italia, noi non raccontiamo abbastanza di come il clima sia anche il risultato del funzionamento della natura e di come questa c’entri con la vita di ciascuno di noi. “Alterando gli equilibri naturali noi stiamo cambiando anche il clima, che è il risultato di un’interazione importantissima della natura con l’atmosfera. Se noi distruggiamo le foreste e gli oceani, non solo distruggiamo il clima e il modo in cui questo impatta sulla natura e la deteriora, ma anche il modo nel quale la natura contribuisce al clima. Noi tutto questo non lo raccontiamo”, continua la Pratesi, “perché se noi raccontassimo quanto la natura incide sul clima e quanto sia affascinante questa interazione, secondo me riusciremmo ad appassionare più ragazzi alla questione climatica perché la passione e l’innamoramento verso la natura scattano automaticamente quando si impara a conoscerla”. Oltre al problema conoscitivo, un altro è che non ci soffermiamo abbastanza nel raccontare il clima nella sua affascinante complessità, perché solo affascinando più persone si può assistere a un cambiamento nelle azioni. Su questo concorda anche Vacchiano, “riuscire a catturare l’attenzione, giocare sul senso di mistero e meraviglia, sono emozioni positive che attivano le persone al cambiamento”.

Immagine: William Turner, Pioggia, vapore e velocità, 1844.

Bibliografia

1 – C.S. Zerefos et al., Atmospheric effects of volcanic eruptions as seen by famous artists and depicted in their paintings, Atmospheric Chemistry and Physics, 2 August 2007.

2 – C.S. Zerefos et al., Further evidence of important environmental information content in red-to-green ratios as depicted in paintings by great masters, Atmospheric Chemistry and Physics, 25 March 2014.

3 – Byron G., Pezzi domestici e altre poesie, Torino, Einaudi, 1986.

4 – Shelley M.W., Frankenstein, Torino, Einaudi, 2016.

5 – Arpaia B., Qualcosa, là fuori, Guanda, 2018.

6 –  Ghosh A., La grande cecità, Beat, 2019.

7 – Harari Y.N., 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2018.

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