Il conflitto russo-ucraino, che procede da quasi otto mesi con scarse possibilità (ad oggi) di un accordo di pace, ha alimentato una crisi energetica, con forti rincari sul prezzo del gas che generano a loro volta crisi economiche soprattutto per gli Stati europei. Il gas naturale è l’idrocarburo che libera la minor quantità di carbonio. Infatti, il gas fossile è presente, insieme al nucleare, nella tassonomia europea, ossia nell’elenco, delle attività economiche ritenute sostenibili. Mentre scriviamo, lo scenario geopolitico relativamente all’approvvigionamento di gas e alla transizione energetica è alquanto preoccupante.
Per avere una spiegazione e un quadro il più possibile esauriente di ciò che sta accadendo nel mondo riguardo l’approvvigionamento di gas e le conseguenze sulla transizione energetica, abbiamo intervistato Demostenes Floros, analista geopolitico ed economico. Insegna presso il Master in “Relazioni internazionali d’impresa Italia-Russia” dell’Università di Bologna ed è responsabile del corso di Geopolitica presso l’Università Aperta di Imola. Collabora con la rivista Oil e con abo.net per Eni. Tra le pubblicazioni li saggio “Guerra e Pace dell’Energia. La strategia per il gas naturale dell’Italia tra Federazione russa e Nato” (Ed. Diarkos, 2020). Da poche settimane, sempre per Diarkos, è in libreria con il saggio “Crisi o transizione Energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità”.
Professor Floros, com’era la situazione relativamente alla transizione energetica mondiale prima dello scoppio del conflitto ucraino?
Prima del conflitto vi è stato un grave problema di analisi, la maggior parte dell’informazione di giornalisti, analisti e dei politici vedeva il passaggio alle energie rinnovabili come immediato o perlomeno come relativamente semplice, nell’arco di un periodo relativamente breve. Alcune letture dei dati del 2020, nel pieno della pandemia, avevano dato indicazioni ulteriormente fuorvianti. Nel periodo che precede il 24 febbraio questa era la visione che si dava in maniera piuttosto semplicistica della transizione energetica al 2050, ovvero un obbiettivo relativamente facile da raggiungere da parte dell’UE in primo luogo. Non veniva fatto invece alcun riferimento a quelli che sono i limiti delle rinnovabili. In particolare, a quella che è la domanda più importante: quanto costa o quanto si può stimare possa costare la transizione energetica e la domanda delle domande: chi paga la transizione energetica? Questi interrogativi sono fondamentali ma le risposte io non le ho udite da nessun potere politico.
Quali sono secondo lei i limiti delle rinnovabili?
Ad oggi sono quelli della densità di potenza, perché il potere calorifico che esprimono è infinitamente più basso dei combustibili fossili. Un altro limite è quello dell’intermittenza. Un esempio preciso. Durante l’estate del 2021 viene registrato un calo dei venti del nord Europa e questo in alcuni Paesi, come nel caso del Regno Unito, ha comportato un incremento della domanda dei consumi di carbone, più inquinante ma anche più economico, a fronte di un aumento del prezzo del gas naturale in atto dal mese di marzo dello stesso anno. Questo è un classico esempio, che abbiamo fatto finta di non voler vedere, di come le rinnovabili presentino dei problemi che necessitano ancora di tanto tempo e di tanti soldi per poter essere superati. Però questi sono problemi di natura tecnologica e scientifica legati ad investimenti economici. Tali investimenti, destinati verso determinate tecnologie, porteranno dei vantaggi ad alcuni e svantaggi ad altri. Oltre a scelte politiche da effettuare a monte. Si profila infatti all’orizzonte un problema geopolitico concernente le rinnovabili, perché non riguardano solamente il sole e l’aria, ma, in primo luogo, materiali non equamente distribuiti sulla terra e quindi soggetti ad altri problemi di natura geopolitica. La maggior produzione di alcuni di questi, ad esempio, è cinese. Ma non vi è solo la Cina. Ci sono paesi dell’America Latina ricchissimi di materie prime come il Cile, la Bolivia, come tanti Paesi africani a partire dal Congo.
Si rischia quindi di passare dalla dipendenza Russa a una dipendenza da questi Paesi che posseggono risorse utili alla transizione energetica. In pratica non saremo mai indipendenti. Del resto, è anche il primo principio dell’economia: “nessun uomo è un’isola”.
Già questo potrebbe fare riflettere e portare molti a ragionare in modo diplomatico, più che con atti di forza. Devo fare un piccolo passo indietro e spiegare che la nostra dipendenza dall’energia russa in realtà celava un rapporto di interdipendenza, perché anche la Federazione Russa aveva bisogno di noi sia in termini di rendita mineraria, sia in termini di scambi economici e tecnologici. Il nostro limite riguarda una dipendenza energetica dall’estero che si aggira sul 60%, problema che non ha la Federazione russa, la quale di converso ha un basso sviluppo industriale e ha bisogno della tecnologia e della manifattura europea, anche delle tante piccole e medie imprese italiane che ben si integrano nel sistema industriale russo. La rottura di questo rapporto è stata fortemente favorita dagli Stati Uniti, guarda caso, la cui dipendenza dall’estero in termini energetici è nulla. In questo momento sono riusciti ad ottenere la rottura in termini energetici tra noi e i russi, relativamente al gas naturale.
L’Europa ha interessi sia negli Stati Uniti, con accordi militari e politici, sia con la Federazione russa, con accordi commerciali ed energetici come lei ha prima illustrato. Immagino l’Europa come un elastico che è in mezzo e viene tirata da entrambe le parti. Prima o poi si spezzerà da un lato o dall’altro. Che cosa accadrà dopo l’8 novembre con le elezioni di metà mandato degli Stati Uniti?
In primo luogo, mi porrei la domanda che cosa succederà da noi nei prossimi giorni post-elettorali. Lei prima giustamente diceva che è vergognoso che nessuno parli seriamente del problema dell’energia che dovrebbe essere, dopo il tema pace in Ucraina, quello più dibattuto. Ora ci stanno chiedendo di stringere la cinghia per affrontare il prossimo inverno, ma sanno bene che il problema non sarà risolto con la primavera, non tornerà tutto come prima. Chi governerà dovrà cominciare a dire le cose in maniera chiara, e se pensa di non farlo sbaglia, perché le conseguenze saranno così esplicite da porlo nella condizione di dover dire qualcosa.
Per quanto attiene le conseguenze della votazione negli Stati Uniti, prevedo una sonora sconfitta di Biden e del Partito Democratico che perderà quindi il controllo del Parlamento, rendendo la seconda metà del mandato particolarmente difficoltosa. Mi sento politicamente molto distante da Trump, ma è certo che il suo approccio in politica estera nei confronti della Russia e della Cina, per quanto attiene il tema pace/guerra, era meno provocatorio di quello del partito Democratico.
Tornando al gas, è necessario quindi trovare approvvigionamenti in altri Paesi che non siano la Russia. Paesi però che sono politicamente poco stabili. I singoli Stati europei si stanno muovendo in autonomia, come l’Italia che qualche mese fa ha chiuso un accordo con l’Algeria. Ma non si rischia di creare, all’interno dell’Unione Europea, una sorta di conflitto?
Temo che questa situazione si stia acuendo e acuirà sempre di più le tensioni in Europa. I Paesi europei si stanno muovendo in ordine sparso e stanno appunto tornando a chiedere a destra e a manca, soprattutto in Africa, di poter sostituire le forniture russe con le forniture di questi Paesi. Ma siamo sicuri che questi Paesi siano così contenti? Faccio due esempi: il gas naturale e liquefatto che l’Italia e l’Europa stanno ricevendo dagli Usa dai primi mesi dell’anno, che hanno fatto sì che Biden mantenesse le promesse fatte portando oltre 15 miliardi di mq3 di gas naturale e liquefatto aggiuntivi, è stato possibile perché molte navi cariche di gas che dovevano arrivare in Asia sono state dirottate in Europa grazie al prezzo più alto offerto dall’Europa. Non solo. L’Europa, oltre a pagare il prezzo più alto, ha pagato anche le penali salate che comportano lo spostamento di un carico da un Paese ad un altro, perché un carico non lo si può spostare quando un contratto è già stipulato, bisogna appunto pagare una penale. Questo ha contribuito a creare diverse difficoltà in Asia. Ad esempio, il Pakistan è un Paese che si è visto spostare alcuni carichi di GNL americano che doveva ricevere: la conseguenza è stata quella di avere diversi blackout. Ovviamente il Pakistan non è affatto contento di una situazione del genere.
Ma il caso più emblematico che coinvolge direttamente l’Italia è l’Africa. Noi siamo così sicuri che gli africani siano contenti e riconoscenti a noi europei per le richieste del loro gas naturale? Io ho qualche dubbio. Noi non abbiamo alcuna intenzione di investire in Africa nel lungo periodo (a parte Eni). E perché non abbiamo bisogno di investire con le nostre multinazionali in maniera decisa? Il piano di decarbonizzazione arriva fino al 2050, quindi non possiamo pianificare investimenti significativi di lungo periodo che potrebbero aiutare anche quei Paesi che, in questo modo, vedrebbero aumentare anche la loro domanda interna e non soltanto le loro esportazioni. Stiamo parlando di un continente dove 600 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità. È su questo che bisogna riflettere. Ecco perché molti Paesi africani vedono il nostro atteggiamento come una posizione neocolonialista. Bisogna riflettere molto sul fatto che si dice che la Federazione Russa sia stata messa in un angolo, mentre invece in un angolo ci è finito l’Occidente, tra l’altro, spaccato al suo interno. Si sarebbe dovuto leggere il voto del risultato del 2 marzo 2022 presso l’ONU in merito alla condanna dell’invasione Russa quando gran parte dell’Opec Plus, così come Cina ed Iran (primo e terzo paese importatore di gas) si erano astenuti. Era una indicazione chiara per capire l’evoluzione del conflitto e del contesto geopolitico generale.
In questo quadro la transizione energetica che fine fa?
Temo che la transizione energetica si possa bloccare se non addirittura fare un passo indietro. Se noi europei pensiamo di fare la transizione energetica senza gas naturale, a mio avviso, ci sbagliamo di grosso. Ma se pensiamo di farla con il gas naturale prodotto dagli Stati Uniti, dove vi è un problema relativo alla tecnica produttiva applicata che è devastante per l’ambiente, a mio avviso, facciamo due passi indietro. Aggiungendo poi le problematiche di cui ho parlato prima sui materiali di base e di geopolitica, è chiaro che l’obiettivo della transizione energetica si allontana. Inserendo anche i costi della transizione energetica (da 90 a 170 trilioni di dollari a livello mondiale che sono necessari per attuarla al 2050, mentre il pil mondiale è 103 trilioni di dollari), si torna alla domanda delle domande: chi paga? Se uniamo tutti questi puntini insieme il quadro che emerge è a dir poco preoccupante.
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