«Chiedo alla scienza di darci certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema […] Pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza».
Così si è espresso il ministro Boccia durante un’intervista pubblicata il 14 aprile sul Corriere della Sera. Queste parole lasciano perplessi diversi professionisti della comunicazione scientifica ma sono il pretesto per affrontare un tema che forse non è mai stato tanto attuale. Quella frase, anzi quella pretesa rappresenta le aspettative di moltissimi e cosa ancora più interessante, ci racconta qualcosa sulla percezione stessa della scienza da parte dei non addetti ai lavori, del pubblico. Secondo questa visione la scienza è portatrice di verità assolute e si eleva a sinonimo di esattezza, affidabilità, inconfutabilità.
Ma in fondo questo non stupisce.
Il sociologo della scienza Massimiano Bucchi scrive nel suo Scientisti e antiscientisti che «l’uso di terminologia ed elementi “scientifici”, il proclamarsi “scientifico”- ad esempio in ambito cosmetico – diviene una sorta di “bollino di garanzia”, né più né meno come “fatto in casa” o “prodotto artigianale” sul menu di alcuni ristoranti».
È un meccanismo di associazione che il nostro inconscio conosce molto bene, tanto da essere sfruttato da decenni dal marketing.
Eppure nella definizione di scientificità individuata da Karl Popper, uno dei maggiori filosofi della scienza del 20° secolo, solamente le teorie “confutabili” sono scientifiche. «Nessuna teoria può dirci qualcosa del mondo empirico a meno che non sia, in linea di principio, in grado di entrare in conflitto con esso. E ciò significa precisamente che deve essere confutabile». Chiedere alla scienza “certezze inconfutabili” è, dunque, un controsenso.
Da cosa deriva allora questa visione?
In parte è sicuramente un retaggio, modificatosi nei secoli, del movimento positivista ottocentesco basato su una forte fiducia verso la scienza e il progresso scientifico-tecnologico. Negli ultimi anni però, spiega Roberta Villa, medico e giornalista tra i membri della task force per il contrasto alla diffusione di fake news istituita a inizio aprile, hanno sicuramente contribuito a rafforzarla i mass media che hanno propagandato un’idea assolutamente sbagliata e pericolosa della scienza.
«Pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza» dice Boccia. Ne siamo proprio sicuri?
Tra i vari aspetti della nostra società che da un giorno all’altro la pandemia ha posto sotto i riflettori ci sono anche le dinamiche interne alla comunità scientifica. I ricercatori si sono trovati catapultati negli studi televisivi e sulle pagine dei giornali affrontandosi in discussioni spesso accese. Il pubblico si è dovuto così confrontare con la logica della scoperta imparando che non è un percorso già segnato, ma un insieme di possibili vie che non si sa a priori se porteranno da qualche parte. Ha scoperto che il disaccordo all’interno della stessa comunità scientifica è un elemento fondamentale del processo che porta alla costruzione del consenso. All’inizio si diceva che il virus era poco più di un’influenza, nessuno si sognerebbe di dirlo oggi.
«La scienza è un processo in divenire, che richiede di mettere continuamente in dubbio ciò che si è acquisito, farsi domande, andare ad approfondire. E lo è tanto di più in questo momento in cui ci troviamo di fronte a una minaccia nuova» dice Roberta Villa.
In questo frammento di un articolo pubblicato nel 1966 su Tempo Medico, rivista di informazione, attualità e cultura per il medico italiano, viene riportata con ironia la questione della verità scientifica come concetto in divenire.
La promozione di un’immagine della scienza quale dispensatrice di risposte certe e inconfutabili quindi è potenzialmente molto rischiosa, per il pubblico e per la stessa comunità scientifica.
Il disaccordo, a volte anche profondo, mostrato da virologi, immunologi, ed epidemiologi in questi mesi ha spesso prodotto nel pubblico che aveva determinate aspettative verso la comunità scientifica un senso di delusione e una conseguente perdita di fiducia verso di essa. Questo fenomeno spinge il pubblico, confuso dall’incertezza, a cercare facili scorciatoie a problemi concreti e imminenti, magari affidandosi a fonti non ufficiali. Un esempio sono gli audio diffusi tramite l’applicazione WhatsApp contenenti notizie non verificate (come quella della vitamina C che dovrebbe prevenire Covid-19). La loro fonte non era mai certa eppure hanno fatto il giro delle nostre chat, o almeno di alcuni.
Sicuramente non era questo il contesto e il modo adatto per trasmetterci una lezione tanto complessa da digerire e con cui avevamo così poca familiarità. In questo momento di incertezza estrema è d’obbligo sottolineare la necessità di uniformare i messaggi non solo tra i mass media “autorevoli” ma anche tra le diverse voci istituzionali allineandoli all’evidenza scientifica che, come abbiamo capito, non è necessariamente inconfutabile, ma la più solida in quel preciso momento.
È giusto riconoscere che una parte di colpa per il fraintendimento fra scienza e pubblico va divisa anche con la stessa comunità scientifica che spesso ha accettato di buon grado il ruolo di paladina della verità assegnatogli dai media e dalla società. Ora è chiaro quanto sia importante che sia lei stessa, tramite scienziati e ricercatori oltre che comunicatori della scienza, a impegnarsi per svelare e rendere comprensibili le dinamiche che guidano la ricerca e il sapere scientifico.
Ma il pubblico sarà disposto a fare uno sforzo per accettare questa incertezza?
A questo proposito, la divulgatrice e biotecnologa Beatrice Mautino propone una riflessione molto interessante. In un suo articolo di risposta alla dichiarazione di Boccia scrive:
«[…] a me sembra che si sia un po’ tutti in attesa della app che ci dia i bollini ai comportamenti. Vogliamo che la scienza ci dica che cosa fare, cerchiamo le previsioni sull’arrivo del picco e la fine dell’epidemia, applaudiamo chi ci dice di metterci la mascherina perché “è meglio che niente”, condividiamo le simulazioni su quanto distante arriva un colpo di tosse e chiediamo quante ore sopravviva il virus sul cartone, quante sulla plastica e quante sull’acciaio. Non per niente “funzionano” molto meglio sui mezzi di informazione, ma anche nei social, quegli esperti che si sbilanciano, che esprimono opinioni nette e non importa se poi se le rimangiano dopo pochi giorni o settimane. Quello che importa è avere qualcuno che ti dia una “certezza inconfutabile”. Se poi la confuta, alla peggio, te la prendi con lui. E, alla fine, credo che stia tutto qui. Avere qualcuno a cui delegare la scelta e con cui prendersela se le cose vanno male.»
È invece fondamentale fare uno sforzo per acquisire gli strumenti necessari a sviluppare il nostro senso critico, così da poter valutare le informazioni non attraverso l’assegnazione di “bollini di esattezza”, ma esaminando il percorso che ha portato le informazioni a diventare tali.
*La copertina è una litografia della Great Moon Hoax (“la grande burla della Luna”). Si riferisce a una nota serie di sei articoli pubblicati a partire dal 25 agosto 1835 sul quotidiano New York Sun che riportavano la falsa scoperta della vita e della civiltà sulla Luna.
Fonti