La stesura e l’invio di un curriculum vitae sono divenuti ormai passaggi obbligati per tutti coloro che vogliono proporre la propria candidatura con lo scopo di ottenere un impiego. Si tratta essenzialmente di un documento redatto secondo schemi prestabiliti e regole ferree, al fine di riassumere ai selezionatori la pregressa esperienza in ambito lavorativo, istruzione e formazione. Nonostante per redigerlo esistano diversi modelli, il formato europeo è attualmente quello più in voga e il più richiesto dalle aziende. Questo primo aspetto, apparentemente legato esclusivamente alla forma, tende a standardizzare le richieste e ad appiattire la creatività dell’individuo nel presentare se stesso e nel fornire un primo indizio circa la sua personalità.
Oggi Internet è pieno di regole e consigli per scrivere il “curriculum perfetto”. La prima regola d’oro che tutti gli addetti ai lavori raccomandano è la brevità: il curriculum non deve mai superare le due-tre pagine perché, come spesso ci sentiamo ripetere, “il responsabile delle assunzioni non ha tempo da perdere”(come se il suo lavoro non dovesse prioritariamente essere dedicato a capire chi sta per introdurre in azienda). Su questo aspetto riflette con ironia anche la poetessa Szymborska nella sua poesia “Scrivere il curriculum”: innanzitutto “a prescindere da quanto si è vissuto / il curriculum dovrebbe essere breve”. La poesia, che tra l’altro ha ispirato la mia riflessione sull’efficacia del curriculum all’interno di un più ampio discorso sul riduzionismo, prosegue attraverso una serie di metafore che ricordano come il mero dato sia determinante rispetto all’esperienza maturata per raggiungere un risultato. Nel curriculum non c’è spazio per ricordi e storie, ma soltanto per indirizzi e date. E così si finisce per dare più importanza al prezzo che al reale valore, al titolo piuttosto che al contenuto, al numero di scarpa anziché al percorso del passato e alla meta del futuro.
Sorvolando sulla poco velata denuncia della pratica della raccomandazione per cui “conta più chi ti conosce di chi conosci tu”, Szymborska rovescia anche il socratico “conosci te stesso” a favore di un “evita te stesso”: le pratiche manageriali attuali, secondo Handy, sono espressione di una cultura fondata sulla definizione del ruolo o del compito da svolgere, non sulle personalità. Di conseguenza anche le cosiddette soft skill, ovvero le competenze trasversali che generalmente occupano la seconda parte del curriculum, finiscono per assumere un valore minore: manuali online, anche di fonti prestigiose, dettano formule magiche in grado di dar lustro alla candidatura. Il curriculum è modificato a seconda dell’azienda a cui si sottopone la domanda, seguendo o immaginando la sua visione del mondo. Ottime capacità organizzative, gestione dello stress, problemsolving, autonomia che convive con il lavoro di squadra sono solo alcune di queste formule che si reiterano nei migliaia di curricula che ogni giorno sono inviati tramite internet. Mai dire che si ama la lettura, è un’attività che implica solitudine, meglio un gioco di squadra, magari insolito come il curling.
Insomma, il curriculum è caratterizzato da un forte approccio riduzionistico, in cui la conoscenza, l’etica, la creatività e l’intelligenza emotiva non trovano posto e soccombono alla determinazione fattualistica. Il consiglio di Frans Johansson, secondo cui le aziende dovrebbero incoraggiare le assunzioni di persone dissimili dai propri predecessori, di cui apparentemente non si ha ancora bisogno, potrebbe sembrare strano: ma solo in questo modo possono accrescere creatività e diversità, evitando cloni o, peggio, mutanti.