Le applicazioni dell’intelligenza artificiale e della robotica stanno cambiando i modelli produttivi del passato. Stiamo progressivamente (e silenziosamente?) andando incontro a una quarta rivoluzione industriale? Siamo pronti a gestire i mutamenti che essa determinerà sono solo nei cicli industriali, ma anche a livello sociale?
Probabilmente, questo tema meriterebbe più centralità, date le conseguenze letteralmente epocali di cui potrebbe essere portatore. Che siano applicazioni della robotica che permettono di automatizzare i processi di produzione dei beni di consumo, o l’adozione di sistemi di intelligenza artificiale per erogare servizi, lo sfruttamento delle ultime frontiere della tecnologia nei luoghi di lavoro può comportare, da una parte, la drastica riduzione dei tempi e dei costi di produzione, e dall’altra una altrettanto significativa contrazione della domanda di lavoro umano.
Sono già numerosi gli studi che si sono occupati di quella che appare tanto una incredibile opportunità quanto una seria problematica. Tra i più autorevoli e recenti, va citato quello del McKinsey Global Institute (1), che è andato ad analizzare gli effetti dell’automazione in 46 Paesi per l’80% della loro forza lavoro. Secondo questo studio, ad oggi solo il 5% dei lavori è esposto al rischio/possibilità di essere totalmente automatizzato. Meno rassicurante, invece, la stima degli impieghi rimpiazzabili almeno parzialmente: essi sono oltre la metà, il 60% delle occupazioni totali.
Altri studi restituiscono una stima dei posti di lavoro persi a causa dell’automazione: secondo il World Economic Forum (2), per i tredici paesi più industrializzati al mondo (l’Italia è compresa in questo gruppo) la cifra si assesta sui 5,1 milioni di lavoratori lasciati a casa perché sostituiti da macchine.
I settori di lavoro in cui le macchine possono risultare più efficaci ed efficienti dell’uomo sono sia quelli prettamente “manuali” delle attività agricole e manifatturiere, ma anche i lavori ripetitivi e prevalentemente operativi nell’ambito dei servizi come il commercio e l’accoglienza.
Dunque, si prospettano scenari rosei per il mondo dell’impresa e apocalittici per quello del lavoro?
La risposta a questa domanda va necessariamente presentata per gradi.
In primo luogo, non va sottovalutato che le conseguenze dell’automazione sul mondo del lavoro non sono solo quantitative, ma anche qualitative, e comportano una radicale rivalutazione del concetto stesso di lavoro. Se un posto di lavoro è esposto alla possibilità di essere automatizzato, ciò significa che quel lavoro afferisce ad una parte di sistema inefficiente. Se il sistema viene reso più efficiente, non c’è più bisogno di quel lavoro per come è sempre stato svolto (3). Ma non è detto che non ci sia bisogno di lavoro per quella mansione. Bisogna anzi iniziare a pensare che il lavoro di domani sarà svolto in relazione a una macchina, come mostra la ricerca del 2017 del centro di ricerca statunitense ADP (Automatic Data Processing) (4). Ciò richiederà senza dubbio uno sforzo formativo, per poter conservare il proprio lavoro nelle nuove modalità con cui esso verrà svolto (5), e questo rappresenta un primo impegno fondamentale per i lavoratori e per gli organismi deputati a garantire loro adeguate possibilità di aggiornamento professionale.
Ci sono, poi, analisi che delineano la possibilità di un aumento dei posti di lavoro, come conseguenza del ricorso a nuove tecnologie. Oltre che a incrementare le possibilità occupazionali nei settori della conoscenza e della ricerca (4), secondo alcune analisi potrà aumentare il numero di posti di lavoro anche in quei settori in cui verrà direttamente applicata. Secondo l’Università di Boston (6), infatti, l’automazione crea più posti di lavoro di quanto ne distrugga, o almeno così è stato storicamente. Studiando le conseguenze occorse in seguito all’introduzione, in alcuni settori, dei sistemi automatici, i ricercatori hanno dimostrato come l’efficientamento del lavoro abbia reso possibile l’apertura di nuovi stabilimenti: ogni nuovo stabilimento prevedeva meno posti di lavoro rispetto al modello che andava a sostituire, ma l’aumento del numero delle sedi operative ha permesso un aumento complessivo dei lavoratori assunti.
Come già detto, questi cambiamenti potranno trasformarsi in opportunità solo grazie a un intenso lavoro di formazione che deve accompagnare i lavoratori dei settori interessati all’automazione. Ciò significa basare il sistema economico sulla conoscenza, sia per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche che per la forza lavoro. E questa esigenza, in un Paese come l’Italia, cronicamente restio alla conversione a un’economia della conoscenza, crea timori: i lavoratori italiani sono infatti, a livello europeo, quelli più preoccupati di perdere il posto di lavoro in seguito all’adozione di nuove tecnologie nel settore industriale, e sono soprattutto i lavoratori con basso titolo di studio a percepire i maggiori rischi (5).
Certamente, per una quota di occupati (che si presume più alta nelle fasi iniziali del processo di automatizzazione del lavoro) sarà inevitabile predisporre strumenti di welfare in grado di sostenere la perdita di competenze lavorative, da aggiungere ai programmi di formazione permanente. Strumenti come l’integrazione degli stipendi per gli occupati più anziani permetterebbero di accompagnare quei lavoratori che più difficilmente possono aggiornare le loro competenze (7).
Meno auspicabile appare la proposta, avanzata tra gli altri da Bill Gates (7), di introdurre una tassa sui robot e i macchinari lavoratori. Un sistema che si configurerebbe come una forma di “luddismo fiscale”, che penalizzerebbe la ricerca e la tecnologia, e che andrebbe a incidere su uno di quei settori dove, peraltro, la ricerca italiana ha raccolto buoni risultati (8). Apparirebbe più sensato tassare non la tecnologia, bensì i profitti che essa genera (8), ma si tratterebbe, in ogni caso, di una strategia difensiva. Che può fare la sua parte, ma una risposta sostenibile e positiva all’utilizzo dei prodotti della conoscenza e della ricerca nel lavoro manuale e nei servizi non può che essere la riqualificazione della forza lavoro interessata in quei settori.
Fonti
- Mckinsey Global Institute (2017) A future that works: automation, employment, and productivity. Studio Mckinsey Global Institute
- World Economic Forum (2016) The future of jobs. http://www3.weforum.org/docs/WEF_Future_of_Jobs.pdf
- Saracco R. (27/4/2018) Robot e posti di lavoro, la creatività salverà l’Italia: ecco come. https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/robot-e-posti-di-lavoro-la-creativita-salvera-litalia-ecco-come/
- Automatic Data Processing (2017) The Workforce View in Europe 2017. https://www.it-adp.com/assets/vfs/Family-27/AAA-New/News-e-Risorse/Workforce-2017/IT-WorkforceView-WP-2017-VF.pdf
- Ambrosetti Club (2017) Tecnologie e lavoro: governare il cambiamento. https://www.ambrosetti.eu/wp-content/uploads/Ambrosetti-Club-2017_Ricerca-Tecnologia-e-Lavoro.pdf
- AGI (07/09/2018) Due esempi concreti spiegano perché l’automazione creerà più lavoro. Una ricerca. https://www.agi.it/economia/automazione_lavoro-2130225/news/2017-09-07/
- Daveri F. (22/09/2017) Che fare se l’automazione porta alla scomparsa il lavoro. http://www.lavoce.info/archives/48776/automazione-lavoro-cosa-accadra-cosa/
- Magnani A., (02/08/2018) In Italia la tassa sui robot non funzionerebbe. Ecco perché. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-02-08/perche-italia-tassa-robot-non-funzionerebbe-123230.shtml?uuid=AEaHGgwD