In periodo di crisi è ragionevole interrogarsi sul ruolo degli investimenti pubblici nella ricerca di base e sulle loro ricadute a livello economico e sociale. La teorizzazione dell’intervento statale nel finanziamento della ricerca risale alla prima metà del Novecento con le proposte dell’allora Segretario al Commercio americano Herbert Hoover. Durante la Seconda Guerra Mondiale le idee di Hoover sono state riprese da diversi scienziati, tra cui il Direttore dell’Office of Scientific Research and Development americano Vannevar Bush e dal sociologo ed economista John Steelman. I loro studi e le proposte che rivolsero ai presidenti americani Roosevelt e Truman contribuirono alla nascita di diversi centri di ricerca statali, che sostennero e favorirono l’eccellenza nella ricerca di base. Secondo la visione di Hoover, Bush e Steelman, l’intervento statale in questo ambito è necessario, in quanto il settore della ricerca di base è largamente ignorato dai finanziamenti privati. Le aziende infatti tendono a sostenere la ricerca scientifica in quegli ambiti che promettono ricadute più immediate sulla produttività. Un esempio attuale di questa dinamica riguarda il settore delle tecnologie pulite, che in Europa è sostenuto principalmente dagli investimenti pubblici.
Con l’inizio di significativi investimenti pubblici nella ricerca di base, sono iniziati anche studi per quantificare le loro ricadute sull’economia e sulla società. Le ricerche tendono a confermare un ritorno positivo sulla crescita economica, che però dipende in modo sostanziale dal tipo di economia dei singoli Paesi. In particolare, negli Stati con una produzione maggiore di merci ad alta tecnologia, come la Germania e gli Stati Uniti, la percentuale di ritorno degli investimenti è maggiore rispetto agli Stati la cui industria è meno avanzata. In un paese come il Regno Unito, due studi condotti tra il 2013 e il 2014 hanno stimato in modo indipendente che in quello Stato il ritorno economico del finanziamento pubblico alla ricerca si aggira attorno al 20%. Inoltre, i benefici economici degli investimenti dei singoli Stati hanno ricadute positive anche per i Paesi con cui ci sono stretti legami di collaborazione scientifica e commerciale. Concretamente, per un’organizzazione come l’Unione Europea questo vuol dire che gli investimenti effettuati da ciascun Paese generano un ritorno economico tangibile anche negli altri Stati dell’Unione.
Secondo la ricercatrice Reinhilde Veugelers del progetto europeo SIMPATIC (Social Impact Policy Analysis of Technological Innovation Challenges), è molto più difficile quantificare l’impatto sociale degli investimenti pubblici nelle scienze di base. Una delle difficoltà consiste nello sviluppare metodi di ricerca che possano descrivere la situazione di Stati molto diversi nella capacità di capitalizzare le innovazioni scientifiche e tecnologiche. In mancanza di studi sistematici, i casi ben documentati sono pochi e non permettono di trarre delle conclusioni generali. Tenendo conto di questo limite, gli studi concordano nello stimare le ricadute positive sulla società tra le due e le tre volte superiori rispetto a quelle sulla crescita economica.
Nonostante questi risultati promettenti, non c’è accordo su quali siano le soglie ottimali di investimento pubblico nella ricerca. Secondo l’economista John Williams, oggi presidente della Banca Federale di New York, il livello attuale di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo è molto al di sotto di un’ipotetica soglia ottimale. Invece per Mario Coccia, ricercatore del CNR, le soglie di investimento pubblico oltre le quali il ritorno economico inizia a diminuire in modo significativo sono molto più basse di quelle stimate dal collega americano. Coccia sostiene inoltre che l’investimento pubblico nella ricerca deve solamente fare da complemento a quello privato, perché solo quando quest’ultimo è prevalente ci sono significative ricadute positive a livello economico e sociale.
Per stimolare i finanziamenti alla ricerca da parte dei privati, l’azienda britannica Economic Insight suggerisce che una possibilità sia quella di aumentare gli investimenti pubblici. Secondo un report pubblicato nel 2015, infatti, a un aumento di investimenti pubblici corrisponderebbe un investimento di entità maggiore da parte di privati. Reinhilde Veugelers però suggerisce che è opportuno distinguere il caso di aziende che già investono in questo settore da quelle che non vi investono: aumentare i contributi da parte di chi già investe in ricerca non porta a un significativo vantaggio nè a livello economico nè a livello sociale; le ricadute maggiori si avrebbero qualora i soggetti che attualmente non investono in ricerca iniziassero a farlo. Eppure i risultati del progetto SIMPATIC indicano che le attuali politiche europee sono carenti proprio in questo ambito. Per colmare questo divario, già nel 2013 alcuni giornalisti scientifici suggerivano agli accademici di mettersi in gioco in prima persona e di partecipare in modo attivo alla discussione politica e sociale sul finanziamento della ricerca.