Il razzismo degli scacchi: il primo a muovere è sempre il bianco

Negli scacchi è opinione diffusa che il bianco abbia una maggiore possibilità di vincere rispetto al nero: la ragione è che convenzionalmente muove per primo. Gli esperti lo chiamano il ‘vantaggio del tratto’ e a livello statistico gli studi quantitativi effettuati a partire dal 1851 nei tornei internazionali mostrano che questa tendenza è aumentata – considerando anche il punteggio di parità – dal 52,55% al 53,40% fino al 1932. Grazie all’informatica, ora possiamo osservare che tra il 2000 e il 2009 nel gioco digitale questa percentuale è cresciuta raggiungendo persino il 55,40% a favore del bianco. Il nero, secondo molti scacchisti, dovrebbe giusto puntare al pareggio. Già nel 1988 il ‘vantaggio del tratto’ è stato contestato, attribuendo alle statistiche un significato esclusivamente psicologico; non esisterebbe, perciò, alcuna spiegazione matematica al vantaggio del bianco sul nero.

Il gioco degli scacchi (al pari dei suoi corrispettivi orientali come il Go) ha presto assunto un ruolo di primaria importanza nelle ricerche sull’intelligenza artificiale perché è quantificabile: benché numerose, dal momento che Claude Shannon le circoscrisse a un numero prossimo a 10123, le possibilità di muovere per il giocatore sono finite e quindi la differenza fra i contendenti è soltanto nella capacità di reazione alle strategie dell’avversario. Ciò a prescindere da chi muova per primo.

Qual è il nesso col razzismo e perché l’etnocentrismo tipico degli Occidentali ignorerebbe la matematica? L’argomento è delicato, specie a partire dal presupposto – dimostrato dalle scienze naturali – che le razze umane non esistono. Tuttavia, le implicazioni sono consistenti: sia una questione statistica oppure psicologica è opinione diffusa (nonché riportata su alcuni autorevoli dizionari) che il problema nasca in epoca contemporanea col nazional-socialismo tedesco. Se, da un lato, chiunque abbia letto il Mein Kampf non può ignorare che il pregiudizio razziale era alla base dell’ideologia hitleriana – né tanto meno negare le discriminazioni razziali perpetrate durante la seconda guerra mondiale – dall’altro affermare che il razzismo sia una prerogativa novecentesca generata dai totalitarismi nazionalisti europei è un errore grossolano. Ciò, a scanso d’equivoci, non intende affatto ridimensionare o giustificare le responsabilità del nazional-socialismo tedesco e del fascismo italiano.

Non è necessario accogliere le tesi revisioniste per confermare che il razzismo è esistito prima dei Wandervögel (membri dell’omonimo movimento studentesco dalla cui eredità è scaturito, fra gli altri, il nazionalismo tedesco) ed è sopravvissuto alla caduta di Hitler. Al contrario, proprio la storiografia accreditata dovrebbe insegnare che le discriminazioni razziali sono sempre esistite: circoscriverle al contesto europeo fra i due conflitti mondiali del ‘900 impedisce di comprendere appieno la complessità del fenomeno. Il problema è delicato perché approcciandolo da un punto di vista quantitativo dovremmo accusare gli arabi – responsabili della cosiddetta tratta orientale degli schiavi neri – della maggiore discriminazione nella storia. Ma puntare il dito contro questo o quel gruppo sociale non avrebbe altro effetto che riproporre le stesse dinamiche divisive. A titolo d’inventario, le stime suggeriscono che lo schiavismo arabo abbia provocato una deportazione da dieci a diciotto milioni di persone tra il VII secolo a.C. e gli anni ’60 del Novecento e provocato la morte di un numero fino a tre volte superiore.

Meno conosciute sono le discriminazioni razziali in India (dove convivono circa duemila etnie differenti). Ancora, in Indonesia è stimato da Amnesty International l’omicidio di centomila papuani pari a quasi un sesto della popolazione nella parte indonesiana della Nuova Guinea: attorno alla fine degli anni ’70 sono state dalle trecento alle quattrocentomila le perdite dei nativi della parte occidentale. Grossomodo allo stesso periodo è ascrivibile l’inizio della discriminazione dei cittadini d’origine cinese del Paese protrattasi fino al 1998 e oltre. Situazioni simili sono riscontrabili in Bhutan – dove dai diecimila ai centomila nepalesi sono stati deportati fra il 1991 e il 1992 – e in Myanmar che nel 1962 ha costretto all’esodo qualcosa come trecentomila indiani e dal 2015 ha prodotto quasi un milione di rifugiati Rohingya e ne ha internati centomila. L’ultima rappresaglia dell’esercito ha provocato tremila vittime nel 2017.

Se nel 2013, proprio durante la presidenza di Barack Obama, negli Stati Uniti nasceva il movimento Black Lives Matter a denunciare il razzismo persistente nelle forze dell’ordine… forse, a prescindere dalle “sensate esperienze” delle scienze naturali sopravvive nell’umanità un germe dell’odio che l’enciclopedia da sé non può debellare. Il bianco – che vorrebbe attribuirsi persino la paternità delle discriminazioni razziali e pretende di conoscere la soluzione per estinguerle – continua a muovere per primo, ignorando che il nero non è l’unico altro colore.

Autore:Federico Moretti

Sviluppatore Front-End

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