Il sessismo è fin troppo presente, sia implicitamente sia esplicitamente, nella comunicazione mediatica. Dalle notizie di cronaca alla pubblicità, la figura della donna è sottoposta costantemente a una discriminazione di genere.
La violenza di genere, in particolare, è un argomento che occupa sempre più spazio sui mezzi di comunicazione. La narrazione dei femminicidi entra nel discorso pubblico ancora principalmente attraverso la cronaca, sulla carta stampata, in radio, televisione o in rete. Spesso troviamo riportate “autogiustificazioni” da parte di assassini rei confessi come “L’ho uccisa perché l’amavo”, assunte poi come frasi emblematiche dai titoli dei vari media. Ma così presentando i delitti sulle donne cadono nella trappola fatale dell’uso di uno schema narrativo stereotipato che contribuisce a consolidare i presupposti culturali del dominio maschile.
L’utilizzo di parole come passione, impulso, raptus per raccontare questi tipi di abusi non fa altro che avanzare giustificazioni per questa violenza che più che privata è collettiva. La violenza di genere è infatti raramente frutto di un raptus momentaneo. Gli omicidi di donne, come qualunque altro delitto di genere, sono meditati, coltivati e alimentati da un rancore che cresce con il tempo. Troppo spesso però, l’atto omicida viene descritto come risultato di un attacco di follia, di una sindrome depressiva o persino di un eccesso d’amore.
In questo modo, gli aggressori vengono dipinti come vittime dell’irrazionalità o di patologie cliniche di fronte alle quali non possono opporre resistenza. Le vittime, quindi, sono giudicate in qualche modo colpevoli di avere scatenato la furia dell’omicida attraverso atti come l’abbandono, il tradimento oppure la scelta di una vita autonoma. In questo modo, la violenza non appare più come frutto di un disegno razionale, bensì come una reazione involontaria a comportamenti della donna che, a differenza dell’uomo, è invece nel pieno della proprie facoltà.
Così facendo, la vittima reale diventa quasi il “vero” carnefice mentre il reale carnefice diventa la “vera” vittima. Questa trappola comunicazionale ha il vantaggio di rendere la narrazione di queste tragedie più interessante, ma in maniera implicita attribuisce colpe dietro il paravento di uno stereotipo di genere e formula giudizi su comportamenti assegnando ai protagonisti ruoli contrari alla realtà.
Il neologismo “femminicidio” comprende tutte quelle forme di violenza che culminano con l’uccisione di una donna derivate da pratiche, relazioni e discriminazioni misogine rivolte alle donne in quanto tali.
I giornalisti dovrebbero evitare di formulare giudizi sommari sulle vittime, facendo a meno dell’uso di cornici sensazionalistiche o di un sostegno superficiale a diffusi stereotipi di genere attraverso l’esplicitazione della propria opinione.
Negli ultimi anni comunque, il lavoro realizzato da attivisti ed esperti di comunicazione, soprattutto donne, sta portando a un aumento del livello di consapevolezza generale che, per quanto ancora limitato, contribuisce a smuovere le fondamenta culturali della violenza di genere. La diffusione del termine femminicidio, nato all’interno dei movimenti femministi negli anni Novanta, ad esempio, è segnale di progresso, poiché permette di leggere i fatti di cronaca attraverso una prospettiva che restituisce complessità sociale e di genere a quelli che altrimenti verrebbero descritti come semplici “raptus”.