L’economia della conoscenza è quella fondata su beni e servizi intrisi di sapere. In quest’ottica, ci sono due tipi di oggetti a disposizione dei consumatori: quelli ad alto e quelli a basso tasso di conoscenza aggiuntiva. Il primo gruppo produce decisamente più ricchezza del secondo.
La National Science Foundation (NSF), agenzia statunitense che finanzia la ricerca nel Paese, pubblica ogni due anni un rapporto, Science and Engigneering Indicators, dove la situazione della scienza, dell’educazione scientifica e dell’innovazione tecnologica negli USA viene esaminata e comparata con il resto del mondo.
L’ultimo rapporto, pubblicato lo scorso marzo, ci mostra dei dati interessanti sul ruolo dell’economia della conscenza nel Pil sia a scala mondiale sia a livello nazionale. Secondo il NSF, il 27% del Pil a scala mondiale viene prodotto dalle imprese KTI (ad alto tasso di conoscenza aggiunta). In Italia l’industria KTI rappresenta soltanto una quarta parte del Pil, lontana dalla media europea, dove questo valore raggiunge il 30%. Le imprese KTI comprendono cinque settori di servizi, KI (knowledge intensive), e cinque di industrie HT (hight technology). Le KI, che comprendono tre settori generalmente privati (affari, commercio, tecnologie dell’informazione) e due settori pubblici (salute ed educazione), rappresenterebbero il 25% del Pil mondiale. Per la precisione, i settori privati genererebbero il 16% del Pil mentre i pubblici sarebbero responsabili del 9%. Le industrie HT fatturano invece il 2% del Pil mondiale.
Nell’elaborazione di questi risultati, gli esperti del NSF non hanno tenuto in conto altri settori ad elevato contenuto di conoscenza aggiunta come ad esempio il turismo, che genera il 10% del Pil a livello mondiale, o il settore creativo, che ne genera il 15%. Se tutti i settori ad alto tasso di conoscenza aggiunto venissero considerati, si calcola che il Pil fatturato da questi potrebbe girare intorno al 60-70% a scala mondiale.
Considerando la distribuzione del Pil in Italia e paragonandolo alla media Europea e mondiale, il nostro Paese risulta tra gli ultimi posti per il fatturato dell’economia della conoscenza.
In Italia l’investimento nei settori ad elevato tasso di conoscenza, come ad esempio educazione e R&S, è diminuito negli ultimi anni del 10% circa. Questo dato contrasta con l’aumento di tali investimenti nei paesi in via di sviluppo e dei paesi in via di uscita della crisi finanziaria. Questa controtendenza si presta all’idea che il declino dell’Italia degli ultimi anni possa essere collegato a una disastrosa sottovalutazione dell’economia della conoscenza.
Esperti come Sergio Ferrari, ex vice Direttore Generale dell’Enea, cercano di promuovere l’investimento nell’economia della conoscenza come via di uscita della recessione economica.
Già nel 1985, uno studio condotto da Momigliano e Siniscalco, evidenziava: “Anche se l’interpretazione è stata puramente descrittiva, i risultati ottenuti, insieme ad altre indagini più dettagliate soltanto per prodotti (che hanno posti in luce una persistente e crescente inferiorità dell’Italia nell’export dei prodotti ad elevato contenuto tecnologico), hanno tuttavia indotto una nota e diffusa preoccupazione: quella di un paese specializzato in prodotti maturi, a basso contenuto tecnologico e domanda scarsamente dinamica, sottoposti , per la legge di imitabilità delle tecnologie, alla crescente competizione dei paesi di nuova industrializzazione ed in via di sviluppo”.
Nulla è cambiato da allora. Anzi, l’Italia ha visto diminuire il commercio dei prodotti ad alta tecnologia, in particolare rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea.
Oggi, gli addetti del settore di ricerca e sviluppo sono meno della metà di quanti ce ne sono in gran parte degli altri Paesi europei, come conseguenza della diminuzione dell’investimento da parte delle imprese italiane in R&S.
E’ chiaro che l’economia della conoscenza è stata storicamente sottovalutata nel nostro Paese e poco considerata come soluzione alla recessione economica degli ultimi anni. Forse una redistribuzione degli investimenti da parte di pubblici e privati in Italia potrebbe portare allo sviluppo economico e al raggiungimento dei livelli di Pil legato all’economia della conoscenza pari alla media europea.