Big Data, George Orwell e la società dell’informazione

Il Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary, uno dei più importanti dizionari della lingua inglese, nel suo ultimo aggiornamento del 2014 ha introdotto oltre 150 tra nuove parole e definizioni ulteriori di parole già esistenti, molte delle quali fanno parte del settore della scienza e della tecnologia.

Oltre a “crowdfunding”, “gamification”, “hashtag”, termini che hanno caratterizzato fortemente il panorama del web e dei Social Media nell’ultimo anno, e al prevedibile “selfie”, che abbraccia ormai qualsiasi ambito della vita quotidiana, una delle novità più interessanti è “Big Data”.

Ecco come appare la voce.

An accumulation of data that is too large and complex for processing by traditional database management tools.

Una locuzione molto letta sui giornali e siti web negli ultimi tempi, che si riferisce ad ammassi di dati talmente grandi e complessi, da essere solitamente difficili da gestire e manipolare a scopo statistico con gli strumenti tradizionali.

Il problema è che i Big Data vengono ormai associati a un concetto che sembrava ormai superato: lo stato di polizia.

Sull’onda dello “scandalo intercettazioni” esploso negli Stati Uniti (il famigerato Datagate), la gestione di grandi quantità di informazioni, di natura per lo più pubblica, è vista come una lesione dei diritti e delle libertà civili dei cittadini. In particolare, quello che l’ex assistente tecnico della CIA, il whistleblower Edward Snowden, ha riferito al britannico Guardian in merito alla National Security Agency statunitense – “siamo tutti sorvegliati” – viene esteso automaticamente ai Big Data in quanto tali. Dimenticando, naturalmente, che i dati sono uno strumento. Per di più, quando sono “open”, a disposizione di tutti.

I Big Data hanno cambiato il modo di elaborare le informazioni: di qualsiasi fenomeno, adesso si conoscono molte più cose.  Anche il nostro modo di vedere il mondo è cambiato: le webgraphics, ad esempio, sono diventate realtà. Rispetto alle infografiche tradizionali, queste ultime favoriscono una maggiore interazione con l’utente, il quale può approfondire in maniera personalizzata gli argomenti affrontati.

Senza i dati, le webgrafiche sarebbero impensabili.

Come mostra il Merriam-Webster’s, anche il linguaggio è stato modificato dall’avvento dei Big Data: analytics, database, report, software, trend, sono tutti termini che esistevano già, ma che adesso sono entrati a pieno titolo nel gergo quotidiano anche dei non addetti ai lavori.

Non si tratta affatto di una neolingua à la George Orwell. Nel caso di “1984”, il nuovo mezzo espressivo sostituiva la vecchia visione del mondo rendendo impossibile forme di pensiero eretiche; nel caso dei Big Data, si tratta invece di un ampliamento delle forme comunicative classiche, che rende comprensibile a tutti un settore finora appannaggio di una nicchia di eletti.

Il successo dei social network ha favorito questo processo: gli insight di piattaforme come Facebook e Twitter sono una versione ridotta e accessibile a tutti delle grandi masse di informazioni che tool più complessi gestiscono ogni giorno. Aziende e istituzioni non possono che beneficiare di questa apertura: grazie alla data visualization, le tendenze del business sono facilmente leggibili da parte del management (dirigente privato o amministratore pubblico che sia), con un indubbio vantaggio per l’analisi previsionale.

Dunque, si tratta di uno strumento che ha sta già avendo delle conseguenze economiche a livello mondiale, e ne avrà ancora di più se adeguatamente sfruttato. I dati parlano chiaro: secondo un report realizzato in collaborazione tra EMC Corporation, un’azienda che fornisce e sviluppa infrastrutture per l’Information Technology, e  IDC (International Data Corporation), specializzata nell’analisi e nella ricerca di mercato, l’universo digitale si sta espandendo a un ritmo costante, raddoppiando di dimensioni ogni biennio: si prevede che nel 2017 il mercato dei Big Data varrà  53,4 miliardi di dollari (nel 2013 questa cifra si è “fermata” a 10,2 miliardi). Ne sono prova i numerosi progetti che la Casa Bianca sta portando avanti in questo settore, investendo già 200 milioni di dollari, anche per contrastare lo strapotere che, persino qui, sembra avere la Cina: nel 2020 il gigante asiatico sarà in possesso di un quinto di tutte le informazioni disponibili su scala planetaria.

Il dato è conoscenza, ma soprattutto è denaro, dunque. Le previsioni che si possono realizzare a partire dai numeri grezzi sono potenzialmente infinite, a patto di integrarle con la conoscenza empirica della realtà. Viviamo, del resto, in quella che è stata definita la “società dell’informazione”, in cui la ricchezza di un Paese viene determinata innanzitutto dalla conoscenza collettiva dei suoi cittadini.

Quali sono i principali vantaggi, in questa prospettiva? Se ne parlerà il 29 maggio presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, durante la giornata tematica organizzata dal master MaCSIS dal titolo “Mondo sapiens. Economia della conoscenza e sostenibilità”: tra gli ospiti anche Davide Bennato,  docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali, nonché esperto di Big Data.

La partecipazione è aperta e gratuita.

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