Dipingo ciò che non posso fotografare. Fotografo ciò che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile. (Man Ray)
La parola tecnologia deriva dal greco “techne” arte intesa come il saper fare, e “logos”, discorso, trattato. È l’etimo stesso del termine tecnologia a portare con sé e a definire lo stretto intreccio del suo rapporto con l’arte. Da sempre gli artisti si sono basati sulle conoscenze tecnologiche e sull’ingegno per trovare i materiali e gli strumenti adatti per esprimere al meglio i propri sogni, pensieri, visioni o credenze e ogni opera d’arte è determinata in primo luogo e soprattutto dai materiali a disposizione dell’artista e dall’abilità di questi nel manipolarli. La tecnologia non solo influenza la creazione artistica stabilendo le possibilità di espressione degli artisti, ma determina il passaggio a funzioni diverse dell’arte cambiandone anche le modalità di fruizione.
Già 30.000 anni fa i nostri antenati cacciatori del Paleolitico superiore erano in grado di lavorare la pietra così da renderla affilata o di utilizzare gli opachi pigmenti naturali offerti dal terreno che, grazie a capacità cognitive sorprendentemente sviluppate, associate alla scoperta delle potenzialità rappresentative e simboliche del segno, utilizzavano per decorare le pareti delle caverne o per scolpire statuette femminili simboleggianti la fecondità. Quando gli archeologi hanno scoperto, per la prima volta, sulle pareti delle grotte in Spagna e nella Francia meridionale, le più antiche tra le pitture pervenute a oggi, non volevano credere che raffigurazioni così vive e naturalistiche di animali potessero essere state disegnate da uomini dell’era glaciale. Ma il successivo ritrovamento, in questi luoghi, di strumenti primitivi di pietra e osso, aveva confermato il fatto che queste figure di bisonte, mammut o cervo erano state veramente graffiate o dipinte da chi cacciava questa selvaggina e che pertanto la conosceva in maniera approfondita. Gli uomini preistorici infatti, credevano già nel potere dell’influenza delle rappresentazioni: una volta fissata l’immagine della preda, l’animale stesso sarebbe dovuto soccombere al potere del cacciatore (Gombrich, La storia dell’arte).
Quindi, fin dall’età della pietra, il rapporto con la tecnologia ha avuto un ruolo importante nello sviluppo dell’attività artistica e nel corso dei secoli forma e consapevolezza di questo rapporto hanno avuto andamento alterno tanto da arrivare a confondersi l’una nell’altra nel Rinascimento. In quell’epoca l’arte intesa come techne coltivava interessi per la scienza dei numeri, per le proporzioni e i rapporti e si dedicava alla progettazione di macchine ed edifici destinati a scopi sia civili che militari. L’artista non era solo artista ma un po’ tecnico, scienziato, filosofo naturale e inventore (Massironi, L’Osteria dei Dadi Truccati). All’inizio del Quattrocento Filippo Brunelleschi, architetto fiorentino, aveva dipinto, nel corso di un esperimento, due tavolette che hanno segnato la nascita della prospettiva intesa come insieme di procedure e proposizioni di carattere geometrico-matematico dei passaggi che consentono di costruire l’immagine di una figura nello spazio su un piano, proiettando questa figura da un centro di proiezione posto a una certa distanza ben definita. Brunelleschi è l’artista-scienziato che ha segnato il passaggio dal Medioevo al Rinascimento: tutta la sua opera artistica, architettonica, teorica può essere letta come una ricerca matematica, una ricerca delle relazioni geometriche, delle leggi fisiche e meccaniche. Ed è con lui che il progetto inizia ad avere il primato sulla realizzazione. Da Brunelleschi in avanti gli artisti sono in grado di determinare in che misura la dimensione degli oggetti diminuisce con la distanza e le sue opere sono state assimilate con entusiasmo anche dai suoi contemporanei, come il pittore fiorentino Masaccio che, tra il 1425 e il 1428, dipinge un’opera per la chiesa di Santa Maria Novella in cui incornicia in modo prospetticamente ineccepibile la Santissima Trinità con la Vergine e San Giovanni ai piedi della Croce e i donatori inginocchiati all’esterno. Con la prospettiva è stato inaugurato un nuovo atteggiamento nell’osservazione della natura e si andava preparando il terreno per la rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo.
Dopo Brunelleschi è la volta di Leonardo, la cui intera opera è un fitto intreccio di arte, scienza e tecnologia al servizio della conoscenza e della rappresentazione: egli rappresenta il traguardo più elevato che poteva raggiungere un uomo di formazione ancora medievale nel suo sforzo verso il raggiungimento della razionalità. Leonardo nei suoi trattati è stato il primo a ipotizzare l’esistenza di due prospettive: quella lineare di Brunelleschi e quella aerea con la quale intendeva il meccanismo della messa a fuoco. Se si guardano nitidamente le figure in primo piano, l’occhio non può contemporaneamente mettere a fuoco anche le figure sullo sfondo che risultano più sfocate. Quindi, se il pittore sfoca le immagini in lontananza, riesce a creare un effetto di tridimensionalità che non fa ricorso alle linee geometriche dell’architettura. Inoltre, a lui si devono i primi studi in Europa sulla possibilità di proiettare immagini dal vero su un foglio dove potevano essere facilmente ricopiate, con la cosiddetta camera oscura leonardiana. Con la camera oscura l’inventore intendeva dimostrare che le immagini hanno una natura puntiforme e si propagano in modo rettilineo venendo poi invertite da un foro strettissimo che fungeva da obiettivo, arrivando persino a ipotizzare che anche all’interno dell’occhio umano avvenisse un capovolgimento analogo.
La camera ottica risultava ancora utilizzata nel XVIII secolo da pittori come Canaletto e Bellotto, i quali, grazie a questo strumento hanno acquisito una precisione praticamente fotografica nel dipingere quei paesaggi veneziani per i quali continuano ancora oggi a essere celebri.
Solo nel 1800 qualcuno pensa alla possibilità di combinare le proprietà creatrici della camera ottica con la possibilità di registrare le immagini ottenute sfruttando le caratteristiche dei sali d’argento sensibili alla luce. E così negli anni trenta dell’800 nasce la fotografia, che ha portato il pittore Paul Delaroche, nel 1839, a esclamare: “Da oggi la pittura è morta”. Effettivamente con la fotografia, l’arte pittorica subisce una scossa che segna il tramonto della pittura accademica volta fino a quel momento alla riproduzione perfetta di un mondo che però non esisteva in quanto mitologico, classico, religioso. In realtà la fotografia non determina la morte della pittura, solo il passaggio a forme pittoriche diverse. Grazie alla fotografia, cui adesso spetta il compito di imprigionare e documentare la realtà, il pittore può permettersi di andare oltre quello che l’occhio vede, autorizzandosi ad esplorare interamente il territorio della percezione visiva e ad abolire le regole della prospettiva. L’impressionista, accogliendo le teorie ondulatorie e corpuscolari sulla luce, ne studia il movimento, le vibrazioni e i cambiamenti di colore. Inoltre, la rivoluzionaria invenzione industriale dei colori in tubetto consente al pittore di abbandonare l’atelier per riprendere en plein air i caffè parigini, i cabaret e la vita dell’epoca, cogliendo l’impressione del momento come Renoir con il Ballo al Moulin de la Galette o Monet ne La stazione di Saint-Lazare, dove quello che interessa al pittore non è la stazione in quanto soggetto ma l’effetto della luce che entra dalla tettoia di vetro per investire le nuvole di vapore e la forma delle locomotive e dei vagoni che emergono dalla confusione (Gombrich, La storia dell’arte).
Con la fotografia prima e il cinema poi, ma più in generale con l’avvento della società industriale, l’opera d’arte entra, come afferma Benjamin, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica). Lo sviluppo tecnologico investe i mezzi di produzione e di riproduzione della comunicazione e della rappresentazione, dando vita a nuove forme di produzione e di diffusione del lavoro artistico e a nuove concezioni rispetto alla funzione sociale dell’arte e dell’artista. Le risposte a queste innovazioni sono contrastanti. Da un lato, soprattutto a partire dal primo decennio del XX secolo, gli artisti sono affascinati dalla tecnologia, la assimilano nell’immaginario artistico o addirittura la utilizzano nella sperimentazione di nuove forme di espressione. Il futurismo è manifestazione del dinamismo del mondo moderno, vuole cantare la civiltà della macchina e della tecnica anche attraverso l’esaltazione della guerra che “grazie alle maschere antigas, ai terrificanti megafoni, ai lanciafiamme e ai piccoli carri armati fonda il dominio dell’uomo sulla macchina soggiogata” (Marinetti, Manifesto per la Guerra Coloniale in Etiopia). Dall’altro lato, alcuni artisti rifiutano sdegnosamente la tecnologia e la modernità scegliendo la strada dell’idealismo o dell’irrazionalismo. Baudelaire afferma: “se alla fotografia si permetterà di integrare l’arte in alcune sue funzioni, quest’ultima verrà ben presto soppiantata e rovinata da essa, grazie alla sua naturale alleanza con la moltitudine”. Per il poeta, il fare artistico è un’attività creativa, ineffabile, svolta da un individuo eccezionale e dotato di poteri superiori: l’opera è un oggetto unico e irrepetibile. Nel momento in cui la macchina fotografica si sostituisce alla mano dell’artista nella produzione di immagini, questa unicità e irripetibilità viene meno.
Benjamin, nel suo saggio del 1936 afferma: “ciò che sfiorisce nell’era della riproduzione tecnica è l’aura che circonda l’opera d’arte”. Come per Baudelaire, anche per il sociologo viene a mancare “l’hic et nunc dell’opera, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova”. L’arte, perdendo la sua aura perde il fascino legato alla sua presenza misteriosa e lontana, perde il suo quid magico per diventare alla portata di tutti. La decadenza dell’aura si fonda su due elementi connessi entrambi con la sempre maggiore importanza che le masse andavano acquisendo: rendere le cose spazialmente e umanamente più vicine e superare l’unicità di qualsiasi dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Monet e Picasso sono appesi alle pareti di una qualsiasi abitazione o ufficio, l’indecifrabile sorriso della Gioconda ci fa interrogare sul suo significato facendo capolino su colorate magliette di cotone, monografie a colori disponibili a prezzi accessibili ci permettono di conoscere il Bernini e la Roma della sua epoca o di ammirare gli Amanti di Maigritte senza passare per New York dove sono conservati. Oltre al passaggio a diverse modalità di fruizione dell’arte, con la perdita dell’aura e del qui e ora dell’opera, viene meno la sua autenticità. Venendo meno l’autenticità dell’opera cambia la funzione dell’arte stessa passando da quella rituale a una funzione politica di dissacrazione, di denuncia e di comunicazione sociale. In questa tendenza si collocano movimenti come quello dadaista, in cui per la prima volta l’opera d’arte è rappresentata da un concetto, da una forma mentale e non da un’immagine. I dadaisti attraverso uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai quali, coi mezzi della produzione imponevano il marchio della riproduzione, volevano suscitare la pubblica indignazione. Di fronte a un’opera dada non si viene rapiti, non ci si ferma in contemplazione ma si rimane violentemente scandalizzati e scioccati: con Duchamp un orinatoio diventa una Fontana e assume l’appellativo di opera d’arte. O con la Pop Art e Manzoni sono considerati arte 90 barattoli di conserva, prodotti in serie, con un’etichetta riportante la dicitura: “Merda d’Artista”: la materia è opera d’arte.
Con il tempo il concetto di opera d’arte si è ulteriormente desacralizzato, rendendo sempre più labili i confini tra arte colta e cultura della comunicazione di massa: ogni nuovo strumento tecnologico è assunto al servizio dell’attività artistica che, intersecandosi con le condizioni storico culturali di ciascuna epoca ha portato a nuove forme di socializzazione dell’attività estetica, sia sul versante della fruizione che su quello della produzione. All’interno di questo processo si inserisce il susseguirsi impazzito di innovazioni tecnoscientifiche della nostra epoca i cui aspetti etici diventano sempre più l’oggetto dell’attenzione dell’artista. In un complesso panorama multidisciplinare in cui, come nel Rinascimento, gli artisti tendono a (con)fondersi con gli scienziati, l’arte contemporanea si pone come un tramite tra l’apparato della ricerca tecnoscientifica e la società. Nascono forme come la Posthuman art, che si basa sull’idea che il corpo biologico è obsoleto poiché esiste la possibilità di ibridizzarlo con la meccanica o l’elettronica: la protesi non è la manifestazione di una mancanza, ma diventa un eccesso in grado di simboleggiare il superamento dei limiti della natura, tanto da spingere l’artista australiano Stelarc, nel 1997 a farsi impiantare un terzo braccio, meccanico, intessuto su quello destro (www.stelarc.va.com.au). Un altro esempio è la Transgenic art del brasiliano-americano Kac (www.ekac.org), la cui opera principale è la creazione di Alba, un coniglio transgenico che diventa luminescente se illuminato con una particolare frequenza elettromagnetica e che vive, perfettamente integrato, nella famiglia dell’artista. Lo scopo di questo tipo di sperimentazioni, a metà strada tra un esperimento scientifico vero e proprio e la creazione di un’opera d’arte, è quello di spingere i pubblici al dibattito attraverso una simulazione estremizzata delle ricadute della tecnoscienza sulla società.
Come i moderni divulgatori scientifici, gli artisti contemporanei con le loro creazioni auspicano una partecipazione allargata al processo tecnoscientifico, passando dalla democratizzazione dell’arte a partire dalla sua riproducibilità tecnica alla democratizzazione delle conquiste tecnologiche grazie alla diffusione e alla co-costruzione della conoscenza.
(Pubblicato su Scienza in Rete)