Il giudice, l’esperto e il paradosso della prova scientifica

Dalle fiction come CSI RIS Delitti Imperfetti, passando attraverso i più recenti fatti di cronaca come il delitto di Perugia, quello di Chiara Poggi o di Yara Gambirasio, tutti noi sappiamo bene come la scienza e le nuove tecniche scientifiche per l’accertamento dei fatti stiano assumendo sempre più rilevanza nei tribunali.

Tanto che Mirjan Damaska, Professore alla Facoltà di Legge della Yale University, nel suo testo “Il Diritto Delle Prove alla Deriva ” afferma che guardare al futuro del processo penale oggi significa soprattutto parlare della progressiva adozione di modelli scientifici nell’indagine sui fatti, dal momento che un numero sempre più elevato di fatti rilevanti al processo può essere dimostrato soltanto con elementi tecnici sofisticati.

Limiti e responsabilità del giudice, “expertise del diritto”

Nel processo penale si vuole arrivare alla conoscenza di un evento del passato, attraverso la diretta percezione di eventi del presente – le prove – che ne costituiscono il segno. L’unità di ragionamento è costituita da un’inferenza del tipo “se… allora” e il passaggio dalle premesse dell’inferenza alle sue conclusioni avviene per via abduttiva (o retroduttiva), cioè attraverso la formulazione di ipotesi sul “caso” che ha prodotto il “risultato” osservabile.
Ad esempio (G.Gulotta, 2011):

se proiettili di questo tipo producono piombo e bario (regola)

e Qui ci sono tracce di piombo e bario (risultato)

Allora qui, forse, è stato sparato questo proiettile (caso)

Però, a ogni insieme di dati osservativi possono corrispondere più ipotesi esplicative e spetta al giudice il compito di stabilire quale sia l’ipotesi esplicativa migliore, tenendo in considerazione le prove. Quindi, una volta effettuata la scelta dell’ipotesi migliore su basi esclusivamente razionali, il giudice dovrà stabilire l’esistenza o meno del reato nel rispetto di tutte le condizioni giuridiche stabilite, come la “gravità”, la “precisione” e la “concordanza” degli indizi, e l’assenza del “ragionevole dubbio”. La tendenza attuale è quella di ritenere migliore l’ipotesi esplicativa basata sulle conoscenze scientifiche: la scienza, fornirebbe al giudice regole di inferenza particolarmente affidabili perché ottenute attraverso il metodo della sperimentazione ripetuta, della resistenza a tentativi di falsificazione e della sottoposizione al giudizio critico della comunità scientifica di riferimento.

Il giudice, infatti, in quanto professionista esperto nell’esercizio del diritto ma non di altri campi del sapere, potrebbe trovarsi a prendere decisioni su questioni che non conosce e per le quali l’esperienza e le massime da essa derivate non bastano. L’art. 220 c.p.p., affermando che “la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”, prevede che il giudice si avvalga della figura di un perito (nell’ambito del processo penale) o di un consulente tecnico d’ufficio (nell’ambito del processo civile) quando la ricostruzione probatoria dei fatti di reato sia talmente complessa da non rendere sufficienti le “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” (art.115, 2° co., c.p.c.).
Secondo i principi generali che regolano il ruolo degli apporti scientifici nei processi, se i criteri e le metodologie sono considerati consolidati, il giudice si limita a verificarne la corretta applicazione, in caso contrario spetta a lui accertarne la validità scientifica. Il giudice deve, quindi, valutare la scientificità di una data indagine come premessa del ragionamento probatorio.

La scienza nei processi: due casi emblematici

In particolare, rispetto al trattamento che il giudice deve riservare alla prova scientifica si deve fare riferimento a due emblematiche sentenze statunitensi: la sentenza Frye del 1923 e la sentenza Daubert del 1993.

Nel caso Frye VS United States l’imputato, accusato di omicidio, aveva chiesto di essere sottoposto al test della macchina della verità. Il test avrebbe misurato la veridicità delle affermazioni dell’imputato misurando le variazioni della sua pressione arteriosa nel rispondere alle varie domande. All’epoca nessuno aveva mai richiesto l’utilizzo di un mezzo simile e la Corte d’Appello del District of Columbia si era ritrovata nella situazione di dover valutare l’ammissibilità di uno strumento la cui validità scientifica appariva discutibile. Di fronte a questo genere di incertezza scientifica, i giudici si sentirono in dovere di rivolgersi alla comunità scientifica di riferimento cui spettava il potere di decisione in quanto deve essere ritenuta valida la scienza che abbia guadagnato l’accettazione generale degli scienziati. Dalla delega agli scienziati era risultata l’inammissibilità del test della macchina della verità perché non sufficientemente accettato. Il punto principale della sentenza Frye è che con essa veniva fissato il criterio, che avrebbe dominato la scena giuridica dei settant’anni successivi, dell’accettazione generale: la prova scientifica ammissibile deve essere ancorata alla generale accettazione da parte della comunità scientifica di riferimento.

Nel 1993, però, con il caso Daubert VS Merrel Dow Pharmaceuticals, la Corte Suprema degli Stati Uniti decide che lo standard Frye circa l’accettazione generale della prova scientifica non è, da solo, sufficiente alla valutazione di un prova scientifica incerta. Il caso Daubert riguardava i supposti effetti collaterali sul feto del Benedectin, un farmaco contro le nausee in gravidanza prodotto dalla Merrell Dow Pharmaceuticals. la Merrell Dow aveva portato in aula lavori scientifici, sottoposti a peer review e quindi generalmente accettati, in cui dimostrava che non vi erano prove che il loro farmaco causasse malformazioni nel feto. I genitori dei bambini nati malformati, per contestare i dati della Merrell Dow, invece, avevano chiesto ai giudici di acquisire anche la testimonianza di altri esperti, in grado di portare evidenze scientifiche contrarie basate su dati non ancora pubblicati, ma che reinterpretavano i risultati ottenuti dalla casa farmaceutica. La Merrell Dow, sulla base del principio Frye si era opposta all’ammissibilità di quel genere di testimonianza: infatti, le prove, essendo state prodotte con metodologie nuove, non riscontravano, all’epoca, l’accettazione generale della comunità scientifica. La Corte, invece, aggirando il principio Frye, aveva deciso di applicare la più generale regola 702 relativa ai criteri di ammissione della testimonianza esperta, e si era così espressa a favore dell’ammissibilità di tutti i testimoni con i requisiti enunciati nella regola stessa.
Secondo la regola 702, un testimone esperto deve: 1) Presentare fatti e dati sufficienti; 2) Fondarsi su principi e metodi affidabili; 3) Applicare in modo affidabile i principi e i metodi al caso. Nella sentenza Daubert, il giudice non si era limitato a ribadire 1) il principio della generale accettazione da parte della comunità scientifica, ma posto di fronte all’ammissibilità di una prova nuova un giudice avrebbe anche dovuto valutare criticamente l’affidabilità dei metodi e delle procedure utilizzati dall’esperto. Questa valutazione deve essere condotta tenendo in considerazione anche altri principi quali: 2) la possibilità di sottoporre la teoria o tecnica scientifica a verifica empirica, falsificarla e confutarla;  3) l’esistenza di una revisione critica da parte degli esperti del settore; 4) l’indicazione del margine di errore noto o potenziale e il rispetto degli standards relativi alla tecnica impiegata. Da quel momento Daubert è diventato il punto di riferimento per la valutazione della prova scientifica. Anche quando i criteri di Daubert non dovessero risultare tutti applicabili alla prova in esame (come il peer review o le pubblicazioni) spetta ai giudici valutare le metodologie tecnico – scientifiche utilizzate dai testimoni esperti.

Con questa sentenza, i giudici, in quanto custodi della legge, hanno ribadito che spetta a loro avere l’ultima parola sulla validità delle conoscenze prese in giudizio. Seppure riconoscano di avere bisogno della scienza per fare luce su questioni particolarmente complesse e per le quali non possiedono gli strumenti necessari a una loro interpretazione, i giudici si riservano il diritto di decidere a chi riconoscere la qualifica di scienziato: saranno gli strumenti processuali stessi a garantire la qualità del risultato e a far inevitabilmente emergere la migliore scientificità. Questo percorso, seguito dalla giurisprudenza statunitense, sembra prestarsi a essere descritto come un progressivo avvicinamento al principio del libero convincimento del giudice, e alla figura del giudice come peritus peritorum (perito dei periti) vigente nel nostro ordinamento. Infatti, nell’ordinamento italiano, è il giudice a dover prendere la decisione finale sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato sulla base del proprio libero convincimento e a emettere una sentenza ed è a lui che spetta anche il compito di valutare l’affidabilità e l’attendibilità delle risorse tecnico – scientifiche utilizzate nel processo.

Il paradosso della “prova scientifica”

Ma come può il giudice, nel suo ruolo di peritus peritorum, controllare realmente l’attività di un esperto che impiega metodologie e conoscenze che non fanno parte del suo ambito di studio? Proprio qui si trova il drammatico paradosso della “prova scientifica” che consiste nella necessità, stabilita dalla legge, di un controllo critico da parte del giudice, su di una materia, che egli, per stessa definizione normativa non conosce. In queste circostanze è più che mai evidente che un gap di conoscenza, che spinge il giudice ad affidarsi alla consulenza di un esperto su una materia che lui non padreggia, si può tradurre, nonostante i criteri della sentenza Daubert, in una asimmetria di potere in cui la bilancia continua a pendere a favore dell’esperto. Un esperto che, se nominato dal giudice, deve giurare di “bene fedelmente adempiere le funzioni affidategli al solo scopo di far conoscere ai giudici la verità” (art 193 c.p.c.), ma che nonostante questo non può dare effettiva garanzia di indipendenza rispetto al potere politico ed economico e la cui attività può essere condizionata da fattori esterni o da interessi e valori personali, soprattutto quando incaricato dalle parti. Da qui è particolarmente sentita la necessità di un’ “etica condivisa dell’esperto”, che serva come barriera a qualsiasi manipolazione, deformazione, omissione e contaminazione in quanto dall’esito di un accertamento tecnico o di una perizia può dipendere l’assoluzione o la condanna dell’imputato.

In questi ultimi anni, con il dilagare delle neuroscienze, il problema legato al potere dell’esperto e alla capacità del giudice di vagliare criticamente sulle prove portate a giudizio si fa più che mai sentire. In Italia le neuroscienze, accanto alla genetica comportamentale, hanno fatto il loro trionfale ingresso in tribunale con la sentenza emessa dal tribunale di Como nel maggio 2011. In questo caso, una donna di 28 anni, è stata formalmente accusata per l’omicidio della sorella e il tentato omicidio della madre. Provati, oltre ogni ragionevole dubbio i reati contestati, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Como ha dichiarato l’imputata parzialmente capace di intendere e di volere, riducendo la pena da 30 a 20 anni di carcere, di cui almeno 3 da trascorrere presso un istituto di ricovero e cura. In questa sentenza il giudice invece di assecondare il parere del perito da lui stesso nominato, che riteneva l’imputata pienamente capace di intendere e di volere, ha accolto le conclusioni del consulente della difesa che aveva proposto il parziale vizio di mente dovuto alla presenza di “pseudologia fantastica, disturbo dissociativo della personalità e grave deficit di intelligenza sociale”.  Accanto alle classiche indagini psichiatriche (nove colloqui, una scala per la sociopatia e alcuni test proiettivi tra cui il Rorschach), e neuropsicologiche (Iowa Gambling Test, test di Hayling,) utilizzate in casi come questo; l’imputata è stata sottoposta anche a due test per valutare la presenza di determinate informazioni nella sua memoria (IAT- Implicit Association Test e TARA – Time Antagonistic Response Alethiometer), a una analisi neuroscientifica (elettroencefalogramma -EEG-, risonanza magnetica -MRI- e morfometria basata sui voxel -VBM-) e, infine, a una valutazione genetica (per valutare la presenza di alleli sfavorevoli che avrebbero favorito l’insorgenza di comportamenti aggressivi).

Nella sentenza, nonostante i risultati delle indagini psichiatriche e neuropsicologiche sarebbero bastati, da soli, a giustificare la decisione circa la parziale incapacità di intendere e di volere, il giudice focalizza la sua attenzione sui risultati allo IAT e al TARA, su quelli ottenuti con l’imaging funzionale e su quelli dell’analisi genetica, considerandoli come procedure più obiettive rispetto a quelle psichiatriche e neuropsicologiche. Il giudice, in sostanza, ha ritenuto come più affidabili proprio quelle procedure che agli occhi esperti degli scienziati sono apparse come le più controverse: o perché non ancora validate per l’uso forense come lo IAT e il TARA; o perché non erano sufficientemente chiari i criteri utilizzati per la formazione del gruppo di controllo nelle indagini neuroscientifiche; o ancora, perché la presenza di tre alleli a bassa efficienza del gene che codifica per l’enzima MAOA, meglio noto al grande pubblico come “il gene dell’aggressività”, può avere senso solo se si tiene conto anche dell’influenza di un particolare ambiente e della sua interferenza con il patrimonio genetico nella manifestazione del comportamento aggressivo.
Oltre all’ingresso ufficiale delle neuroscienze nei tribunali italiani, è emblematico in questo caso l’effetto persuasivo che i due consulenti della difesa sono riusciti ad avere sul giudice, scrivendo una relazione definita dal giudice stesso “ben redatta” e riuscendo a mettere in risalto i risultati ottenuti con quegli strumenti che, se scientificamente sono i più controversi, sono apparsi al giudice (non distinguendosi da quello che avrebbe pensato l’uomo della strada) come i più obiettivi e quelli sui quali fondare la propria decisione perché, a detta sua, la “psichiatria classica non è più in grado di dare risposte soddisfacenti alle esigenze della legge, fondamentalmente perché basa le sue conclusioni su impressioni soggettive invece che su prove scientifiche”.

Quali risvolti futuri potrà avere una simile conclusione? Se questo giudice avesse avuto maggiore consapevolezza del dibattito scientifico sulle neuroscienze, avrebbe fondato la sua decisione sulle stesse motivazioni?

 

Bibliografia e referenze:

– Bottalico B. (2011). The Albertani case in ItalyQui scaricabile .

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– Caprioli F. (2008). La scienza “cattiva maestra”: le insidie della prova scientifica nel processo penale. InCassazione Penale, n. 9

– Damaska M. (2003). Il Diritto delle Prove alla Deriva. Bologna: il Mulino

– Gulotta G. (2011). Compendio di psicologia giuridico-forense, criminale e investigativa. Milano: Giuffrè

–  Lorusso S. (2011). Il contributo degli esperti alla formazione del convincimento giudiziale. In Archivio Penale 2011, n. 3.

– Ovadia D. (2011). Il caso di Como e le neuroscienze in tribunaleQui scaricabile

– Tallacchini M. (2003). Giudici, esperti, cittadini: scienza e diritto tra validità metodologica e credibilità civile. In Politeia, XIX, 70.

– Taruffo M. (2009). Scienza e Processo. XXI secolo. Qui scaricabile

 

 (Pubblicato su Scienza in Rete)

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