L’insostenibile intelligenza delle cose

Economia che non cresce a sufficienza? Differenziazione esasperata nella domanda dei servizi? Rapporto difficile fra centralità del potere e potenziale anarchico della società liquida? In Cina non solo hanno già trovato la risposta ma la stanno pure implementando. Anche se, forse, potrebbe non piacerci troppo.

Lo strumento si chiama “Internet Delle Cose” (IoT, Internet Of Things) e non è qualcosa di rivoluzionario: se n’è parlato fin dagli anni novanta, alludendo in generale al trasferimento di capacità elaborativa ai comuni oggetti. La IoT sta già silenziosamente nascendo, del resto, con l’upgrade da Ipv4 a Ipv6 (The Guardian, Il Sole 24 ore) e nelle previsioni di chi, come l’esperto di e-business Davide Casaleggio, ha stimato una crescita dei dispositivi connessi a internet di due ordini di grandezza nei prossimi dieci anni. La tecnologia della IoT è un mix di elettronica, informatica e tecnologie wireless e l’oggetto finale è un insieme di nodi che realizzano elaborazioni unitarie, comunicando col protocollo TCP/IP. Lo scopo per il quale realizzarla costituisce l’aspetto più problematico, tanto è vero che la UE ha avviato una consultazione popolare in materia. Vi sono, infatti, due idealtipi di riferimento, che possono condurre a due IoT molto diverse fra loro. Il primo è basato sulla massimizzazione dell’elaborazione distribuita per ottenere miglioramento e capillarizzazione dei servizi. Il secondo è, invece, finalizzato principalmente al controllo.

La vicenda cinese, dicevamo.

La storia (affrontata anche da Science) parte dal lago Taihu, oggetto, nel 2007, di un’abnorme crescita di alghe. Per risolvere il problema, gli scienziati del Nanjing Institute of Geography and Limnology hanno installato una rete di sensori collegati, con tecnologia RFID e WiFi, con una centrale di elaborazione. Solo una piccola case history, a ben vedere, ma sappiamo che in Cina, quando intravedono delle prospettive, non vanno mai esattamente per il sottile. Il governo di Pechino, infatti, deciso a valorizzare al massimo questa esperienza, l’ha trasformata in una delle colonne portanti del piano quinquennale. E’ lecito pensare che l’iniziativa cinese sia qualcosa di completamente diverso dai timidi tentativi europei non solo per la sua portata (che coinvolge agricoltura, trasporti e prevenzione ambientale) ma anche per il suo forte orientamento al controllo, dati gli evidenti collegamenti con il progetto Carta d’Identità RFID (vedi anche Science e Tom’s Hardware). La IoT cinese, inoltre, ha già determinato una domanda di almeno 6 miliardi di euro (Infoworld) nel quinquennio 2004-2009 a beneficio delle sole aziende nazionali.

Questa operazione è stata accolta da parte della comunità scientifica non solo con apprezzamenti ma anche con significative critiche, data la complessità della questione diritti umani nella Repubblica Popolare. Vi è, intanto, il tema della privacy del singolo e del possibile sbilanciamento di potere fra collettività e individuo. Vi sono, poi, le perplessità sull’approccio di data hoarding adottato in contrapposizione agli open data occidentali. A mitigare, in parte, le possibili preoccupazioni ci sono alcuni importanti ostacoli tecnici ancora da superare. Il primo è la realizzazione del fantomatico occhio di dio centrale, che dovrebbe non solo gestire un volume di dati finora mai trattato, ma anche risolvere il trade off fra generalità ed efficienza. Il secondo è l’immaturità del progetto: alcuni studiosi hanno stimato in 5-10 anni il periodo necessario per poter esprimere giudizi circostanziati.

In Cina, dunque, non sta nascendo né l’Estasia di Orwell né il Tecnonucleo di Dan Simmons. C’è soltanto un paese che sta dimostrando una sorprendente capacità di dar seguito alle proprie vision. Certo, qualcuna delle sue iniziative potrebbe anche mettere in discussione qualche nostra consolidata certezza.

Continuiamo pure a stare tranquilli, dunque. Senza esagerazioni, però.

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